Lettera ai parrocchiani
Carissimi parrocchiani,
Quando andai per l’ultima volta a trovare il card. Ballestrero, Arcivescovo emerito di Torino, a Bocca di Magra, ad un certo punto mi disse: “posso ancora darti un’ubbidienza?
“ io gli risposi, Padre una più una meno non fa differenza , dica pure.
E lui mi disse :” scrivi tutto quello che ricordi della tua vita”.
Io gli ribattei subito :” e poi?”
E lui … ” poi non dipenderà più da te”.
A dire il vero fin’ora non ho ancora soddisfatto questa ubbidienza e ne approfitto ora che debbo iniziare questa presentazione per il sito della parrocchia e vedrò di scrivere un po’ quello che ricordo.
Anzitutto debbo dire che son nato a Givoletto, allora non faceva comune e quindi risulto nato a S. Gillio Torinese il 3 Ottobre del 1944.
I miei genitori son di Pianezza ed io son cresciuto lì.
Ho frequentato l’asilo con le suore del Cottolengo e posso dire che il 15 maggio 2015 sono stato a trovare una delle mie suore dell’asilo suor Luigina, che vive nel Cottolengo di Biella ed è ancora molto lucida e in forza e presentandomi la casa dove lei abita tra le altre cose mi disse che il suo reparto è questo ma le anziane sono dall’altra parte.
Lei con 94 anni non è anziana.
Ricordo che quando è venuto il viceparroco a visitare l’Asilo l’altra suora, suor Enrica gli ha detto, presentandomi, questo ha la stoffa per diventare prete.
Ho poi incominciato a frequentare le elementari ed a me è toccato la maestra Martini Rosa, un’anziana signorina che faceva ormai fatica a vedere e quindi portava degli occhiali molto spessi.
Finita la quarta elementare parecchi miei compagni han preferito ripetere l’anno per poter cambiare maestra, invece i miei genitori han deciso di iscrivermi alla scuola dei salesiani che c’era a Caselette nel castello del conte Cajs.
E così sono stato allievo dei salesiani per un anno.
Alla fine dell’anno scolastico i superiori han chiesto al mio papà se permetteva che frequentassi il seminario per diventare salesiano, ma mio padre rispose che ero ancora troppo piccolo per prendere questa decisione e che era meglio per ora che ritornassi a casa, poi crescendo deciderà.
Ritornando però al paese non c’erano scuole dopo le elementari e quindi bisognava andare a Torino, ma io pativo il pulman e quindi restai a casa.
Per non restare però in ozio, il parroco nuovo appena arrivato a Pianezza, don Gabriele Cossai, mi invitò ad andare a fare ufficio parrocchiale tutti i pomeriggi ed invece al mattino andavo all’ufficio postale per aiutare a portare la posta visto che era vicino a casa.
In quel periodo il parroco aveva avviato la costruzione dell’Oratorio ed allora assieme ad altri miei coetanei ci siamo impegnati ogni mattina ad andare a Messa e al termine della funzione fuori della Chiesa vendevamo dei buoni per comperare un mattone o un Kg. di cemento per contribuire a pagare le spese.
Oltre questo ci siamo impegnati nella rivendita del giornale “il Vittorioso” che era la rivista dell’Azione Cattolica.
Io intanto mi sono inserito nei chierichetti guidati dal Viceparroco.
L’anno dopo mi sono iscritto alla scuola serale di avviamento commerciale “Teofilo Rossi di Montelera” con un bel risultato premiato al teatro Alfieri nel mese di giugno.
Finite le commerciali andai a lavorare alla Philips di Alpignano fino a quando entrai in seminario a Rivoli nell’ottobre 1963.
Infatti in quell’anno nel mese di luglio andai in campeggio con la parrocchia e fu un’esperienza importante per farmi fare la scelta decisiva della mia vita, consacrarmi al Signore.
Dopo un anno di seminario, il mio parroco di Pianezza chiese al rettore se mi lasciava andare in parrocchia al sabato e alla domenica per interessarmi dell’Oratorio e dell’istituto Benefica che era arrivato nel paese e che accoglieva 300 ragazzi di tutte le età di cui molti arrivavano dal carcere minorile Ferrante Aporti.
Con questi ragazzi entrai subito in sintonia tanto che i superiori dell’istituto Benefica e quelli del Ferrante a Porti inoltrarono domanda al rettore del seminario perché io potessi frequentare i loro ambienti come seminarista.
Nel 1968 il nuovo rettore, Mons. Maritano non mi lasciò più portare avanti questa esperienza con la motivazione che mi assorbiva troppo.
Mi inviò invece a Porta palazzo, nella Chiesa di S. Gioachino perché iniziassi li una nuova esperienza, organizzare una comunità preseminario con 8 ragazzi minori.
Allestii quindi un’alloggio alla base del Campanile della Chiesa con cucina refettorio, stanze e terrazzo.
Al mattino mi alzavo presto, preparavo la colazione ai ragazzi e poi partivo per Rivoli in seminario per la scuola a volte in autostop e quando ero in ritardo con la macchina del Curato don Guido Gribaldi.
Al giovedì e al sabato, non avendo scuola, ne approfittavo per andare a lavare le scale in Corso Giulio Cesare e in Lungo Dora Napoli, per poter mantenere i ragazzi che davano alla comunità solo gli assegni familiari che allora erano molto pochi.
Sono stato ordinato sacerdote il 25 giugno del 1972 proprio nella parrocchia di S.Gioachino in Porta Palazzo dal card. Pellegrino.
La sera prima dell’ordinazione sono arrivati da Rimini tutti i ragazzi dell’Istituto di don Baronio di S.Mauro Pascoli vicino a Bellaria dove io con i ragazzi della comunità andavamo al mare nel mese di agosto.
Questi ragazzi non avevano mezzi per andare al mare e allora io portavo i miei ragazzi in spiaggia poi tornavo indietro a caricare loro.
Erano molto piccoli e un giorno siamo riusciti a farne stare 21 su un pulmino 850 fiat.
Il mattino della mia ordinazione dopo aver trascorso la notte quasi in bianco perché c’era sempre qualcuno che aveva bisogno di qualcosa, dopo aver preparato la colazione li ho aiutati a vestire la divisa da musicisti, e poi sono scesi nella Chiesa di S.Gioachino.
Han suonato durante la Messa della mia ordinazione alcuni brani e poi come canto finale, si sono sbizzarriti con il canto della loro terra “Romagna Mia” che ha fatto sorridere di cuore il cardinale che si è complimentato con loro specialmente con Gennaro, ragazzotto di 13 anni che ha suonato la tromba in modo meraviglioso.
Dopo la Messa, mentre i miei genitori facevano pranzo con il cardinale, il parroco, i preti miei amici e concelebranti tra i quali il mio compaesano don Michele Suppo missionario salesiano che era stato in carcere per parecchi anni sotto il regime di Mao in Cina, io ho servito pranzo ai ragazzi e poi mentre il diacono Pier Giuseppe Accornero accompagnava i più grandi a visitare il Cottolengo, io con i più piccoli siamo andati a visitare lo zoo.
Poi dopo averli accompagnati alla stazione sono andato alla Consolata a Celebrare la mia prima Messa alle 18,15.
Il mattino dopo alle 6,15 sono stato a Celebrare la Messa dalle suore del Sacro Cuore di Maria, suore sordomute del Cottolengo.
Ormai prete, si trattava di essere nominato viceparroco in qualche parrocchia ma io avevo 7 ragazzi con me e quale parroco avrebbe accettato un viceparroco con figli?
Ecco allora don Virginio, il quale saputo del mio problema dalla direttrice di Casa Nostra, zia Maria, un’istituzione religiosa per ragazze Madri che avevo conosciuto negli anni e con la quale avevo collaborato accogliendo nella mia comunità un suo ragazzino un po’ irrequieto, don Virginio dunque fece lui richiesta al Vescovo per avermi in parrocchia.
L’alloggio per i ragazzi c’era, perché si era liberato un alloggio occupato fino allora da un sacerdote collaboratore, vicino all’Asilo.
Ed ecco il 2 luglio feci il mio ingresso nella comunità di S.Giulio.
Dissi a don Virginio che io venivo nella sua parrocchia molto volentieri, ma poiché era una cosa insolita che il viceparroco avesse figli, e allora prima conoscesse bene i ragazzi, se poi riteneva che non fosse la loro presenza un bene per la Parrocchia, io avrei chiuso la comunità.
Ebbene don Virginio a Novembre dello stesso anno, avendo conosciuto nell’estate questa piccola comunità di giovanotti, a Novembre chiese alla Curia che fossero tutti inseriti nell’elenco dei ministri straordinari dell’Eucarestia di recente istituzione in Diocesi.
E così Giovanni è stato, penso, il più giovane Ministro straordinario della Diocesi, aveva 16 anni.
Ricordo che quando arrivai nella parrocchia di S.Giulio c’era suor Silvia che fungeva anche da Viceparroco oltre che da superiora delle suore pastorelle e feci un po’ fatica a trovare la mia collocazione.
Trovai un espediente per poter incontrare i ragazzi personalmente e farmi conoscere.
Il padre spirituale del Seminario aveva una scimmia viva in gabbia e me la feci imprestare da mettere in Oratorio attirando così la curiosità dei piccoli i quali venendo a visitarla potevano darmi il loro nome ed indirizzo e numero di telefono.
Trascorsi così i mesi estivi riempiendo un buon quaderno con tanti nomi di ragazzi affianco alla mia collaboratrice scimmia
A settembre con tutti questi nomi incominciai a telefonare a qualcuno per invitarli ad un incontro programmatico dell’anno inventando così il nome di delegati che avevano lo scopo di portare nelle loro classi le notizie della parrocchia e viceversa.
A novembre proposi loro di passare in Chiesa al mattino andando a scuola così potevamo recitare le preghiere assieme ricordando i loro compagni al Signore.
In primavera i gruppi erano ben costituiti e incominciammo a pensare a dei ritiri mensili per classi.
Chiesi ospitalità ai Padri Somaschi di S.Mauro che avevano proprio allora aperto la loro casa di spiritualità, e così ogni sabato un consistente gruppi di ragazzini andava per la mezza giornata di ritiro.
Si partiva alle 14 accompagnati in macchina dai genitori e si iniziava subito con alcune riflessioni comunitarie e di gruppo, poi dopo aver cenato a Villa Speranza e fatto un po’ di adorazione, si ripartiva a piedi verso S.Giulio.
Si arrivava verso le 10,30, contenti d’aver trascorso un pomeriggio assieme a 80-90 amici.
Questi gruppi furono ricordati nei primi bollettini dei Padri Somaschi come i dondiniani che hanno dato il via alle attività spirituali della Villa Speranza.
La comunità guidata da don Virginio era formata da persone stupende e cristiani convinti.
Era una bella comunità.
Io però non avevo mai avuto esperienza di una tal maturità tanto che ricordo ancora oggi la risposta che diedi al gruppo di genitori che mi chiedevano se avevo bisogno di loro per organizzare l’Oratorio, io risposi: Grazie mi bastano gli animatori.
Ora certamente non risponderei più così.
Ero giovane e senza esperienza di comunità.
Ci siamo voluto bene don Virginio ed io, e non poteva che andare così con una persona come lui.
Ricordo che il primo Natale che trascorsi con don Virginio, il Natale ’72, misi dopo la Messa di mezzanotte sotto il cuscino del parroco un colbacco invernale con un biglietto di auguri con scritto: al mio terzo papà.
Il giorno di Natale a pranzo ringraziandomi mi chiese però: com’è questa gerarchia di Padri.
Risposi che il primo era il Padre Eterno, il secondo mio papà Francesco e il terzo era il papà parroco.
In seguito don Virginio mi propose di andare a Mondrone, paesino delle valli di Lanzo a celebrare la Messa perché il parroco di lassù era malato.
Andando però su non mi limitai a celebrare in Chiesa ma incominciai, fermandomi fino al lunedì pomeriggio, a sistemare la casa parrocchiale che diventò così la casa delle vacanze del nostro Oratorio.
Quante belle esperienze e quante amicizie si formarono lassù con l’aiuto delle suore pastorelle e di Nonna Cavallino e zia Maria che prestavano la loro opera come volontarie della cucina.
In parrocchia poi si fecero parecchie esperienze con i gruppi giovanili che crescevano numerosi.
Una tra le tante è stata quella di Taizè.
Infatti andammo con un pulman addirittura e arrivati a destinazione montammo le nostre tende che avevamo acquistato per l’occasione.
E fu un momento importante per la nostra vita di preghiera, vedendo le migliaia di ragazzi riuniti attorno ai monaci di Fréer Roger.
L’anno che uscì il film Jesus Crist Superstar gruppi giovanili in parrocchia ne avevamo tanti e allora proposi a tutti i gruppi delle superiori e universitari di invitare i loro compagni di scuola ad una celebrazione della Messa del Giovedì santo stile superstar.
Fu un successone, tanto che dovemmo togliere tutti i banchi dalla chiesa e come altare adoperammo due tavoli da ping pong.
Tutti i ragazzi seduti per terra.
Ci furono dei canti stupendi eseguiti da centinaia di giovani voci.
Per la comunione ci facemmo confezionare dal panettiere dei pani azzimi come nel Film e consacrai tutti quei grossi pani.
Si spezzarono e si distribuirono a tutti dai catechisti e animatori.
Si avanzarono molte briciole e parecchi pezzi di pane.
Le briciole le consumammo il venerdì santo, ma parecchi pezzi di pane azzimo si distribuirono anche alla Messa del sabato Santo.
Un fatto che non voglio dimenticare perché è inedito, pochi lo sanno di quella veglia pasquale.
Terminata la funzione mentre vado a chiudere le porte, vedo in fondo alla Chiesa suor Giulia che tutta infagottata nel suo velo se ne stava ancora nel banco.
Mi avvicinai per porgerle gli auguri di buona pasqua e con mia sorpresa vidi che ancora stava rosicchiando qualcosa.
Le chiesi cosa stesse facendo, e mi rispose che, sì dandole la comunione le avevo detto “Corpo di Cristo”, ma forse a lei avevo dato solo le ossa, perché era ancora lì con il pezzo di pane azzimo che non riusciva a spezzare.
L’esperienza che però ha segnato la mia vita è stata quella del terremoto del Friuli del 1976.
Ricordo che il 7 maggio pomeriggio dopo il terremoto del 6 io ero con il gruppo delle terze medie, e Federico mi fece questa domanda: Cosa facciamo noi per i terremotati?
Io risposi che mica eravamo in Guatemala dove da poco c’era stato un terremoto ed era stato devastante.
Qui siamo in Italia e il governo ci penserà.
E lui seccato mi ribattè: sempre così la Chiesa, parla parla ma poi quando è ora si tira indietro.
Alla sera dopo cena andando ad una riunione del quartiere comunicai ai giovani presenti questo interrogativo del ragazzo di terza media che mi aveva un po’ spiazzato.
Finita la riunione proprio fuori seduti su un camioncino con giovani che dovevano dopo un mese sostenere gli esami di maturità, decidemmo di partire l’indomani mattina per andare a prestare opera di soccorso.
Infatti dopo aver comunicato al parroco questa decisione, con due macchine strapiene di coperte partimmo l’indomani mattina per Udine.
Già da Mestre facemmo fatica ad avanzare perché la strada, non ancora Autostrada, era un andirivieni di autoambulanze e macchine dei vigili.
Arrivati ad Udine andammo in Seminario dove c’era lo smistamento degli aiuti.
Era la sera dell’8 maggio.
Ci dissero di andare a riposare e l’indomani mattina presentarci in ufficio per ricevere l’indicazione di dove andare a prestare soccorso.
Ma quella notte dormire proprio non riuscimmo perché dopo due ore che eravamo nel sacco a pelo, una forte scossa ci rimise in piedi e di corsa fuori nel cortile.
Io mi ritrovai con il mio sacco a pelo in mano, nudo e tremante, tanto che mi sentii dire da uno che era nella stessa situazione mia come anche gli altri: “non fosse che ho una fifa tremenda e tremo come una foglia, mi metterei a ridere vedendo questo nostro abbigliamento adamitico”.
Comunque andammo a riprendere gli abiti e ci presentammo all’ufficio indicatoci e ci inviarono in un paesino sperduto sulle montagne a vedere com’era la situazione perché nessuno ancora era andato.
Partimmo e trovammo le indicazioni del paesino, ma dovemmo farci spazio sulla strada perché parecchie erano le frane che ostruivano il passaggio.
Finalmente arrivammo in un paesino che gravi danni non li aveva avuti ma dove però la popolazione era piena di paura e dormivano all’aperto.
Una cosa che ci impressionò furono le risposte che ci diedero all’offerta nostra di coperte nuove che avevamo portato: no grazie portatele a chi ne ha più bisogno, perché noi appena passerà la paura cercheremo di andare a riprendere quelle di casa nostra.
Ritornati a fare relazione in Seminario, ci inviarono a Maiano per dare un aiuto per estrarre i corpi e dare sepoltura.
Così arrivati nel grosso abitato di Maiano io andai nella palestra dove i due sacerdoti del paese da 3 giorni si occupavano delle salme ed erano sfiniti.
Furono contenti nel vedermi e mi lasciarono subito il posto.
Io però a sentire il puzzo di cadavere che c’era in quel locale dissi al parroco che io non ero in grado di sostituirlo perché mi veniva il vomito.
Lui molto deciso mi riprese dicendo: qui se non ce la facciamo noi preti a fare questo lavoro pochi altri ci possono sostituire, quindi mettiti un’asciugamano sul naso e sulla bocca, e quando arriva una salma da riconoscere bevi un taiut ( bicchiere ) di grappa, e avanti.
Feci molta fatica ad iniziare ma poi mi abituai e così trascorsi 2 giorni a scrivere sopra ogni bara da quale casa proveniva e alcuni dati che mi sembravano significativi per il riconoscimento.
I ragazzi invece andarono ad estrarre cadaveri dalle macerie.
A notte ci ritiravamo sulle macchine per dormire quello che riuscivamo.
Al secondo giorno io ripresi il mio lavoro ed invece i ragazzi andarono ad aiutare nella grossa cucina da campo perché avevano le mani che facevano male a forza di scavare nelle macerie.
A fine giornata, pioveva e allora le autorità decisero di spargere calce viva sulle macerie e non cercare più resti umani perché di quello ormai si trattava.
Decidemmo allora di ripartire facendo tappa a Venezia per visitarla per chi non l’aveva ancora vista.
Io mi fermai in un bar vicino alle macchine perché avevo fame non avendo mangiato per 2 giorni.
Chiesi allora un gelato poi un secondo e un terzo abbondante.
Mi son saziato a gelati.
Arrivati i ragazzi ripartimmo per Torino.
In parrocchia trovai don Virginio il quale mi lasciò dire qualcosa di quel che era stata l’esperienza da becchino e poi mi mandò a lavare e poi a dormire.
So che mandò qualcuno della parrocchia a far lavare e disinfettare la macchina perché, mi disse poi, puzzava di morto.
Dormii tutto il giorno e la notte e l’indomani svegliandomi don Virginio mi disse che aveva telefonato il Cardinale Pellegrino per chiedere com’era andata l’esperienza e di mandarmi da lui appena me la sentivo.
Così feci e mi presentai all’Arcivescovo il quale volle sapere tutto quello che avevamo visto e fatto e alla fine del colloquio mi chiese se ce la facevo tornare giù per portare l’aiuto concreto dei Torinesi.
Così mi consegnò 100 milioni da consegnare all’Arcivescovo dicendomi ancora di chiedere cosa avremmo potuto fare come diocesi.
Ripartii la sera stessa arrivando il mattino dopo in Arcivescovado di Udine alle 6,30.
L’Arcivescovo Battisti mi ricevette subito e alla mia domanda su quello che Torino avrebbe potuto fare, mi propose il gemellaggio tra Torino e Gemona, la cittadina che aveva avuto più disastri e vittime.
Da notare che non si era ancora mai usato il vocabolo gemellaggio per queste situazioni.
Così ripartii per Torino andando direttamente in Curia dall’Arcivescovo, il quale dopo aver ascoltato il mio racconto mi disse deciso: “e allora datti da fare sei giovane e puoi partire con l’organizzazione del gemellaggio. Hai carta bianca”.
Arrivato in Parrocchia riferii a don Virginio la proposta del Cardinale e anche lui mi incoraggiò dicendomi di incominciare a lanciare la proposta del campo di lavoro in parrocchia.
Furono giorni molto belli, perché si vide la generosità giovanile e non solo, perché parecchi adulti si iscrissero per poter partecipare al campo lavoro.
Si affiancarono alla nostra parrocchia capo cordata, gli scout di Torino, il gruppo vincenziano, i Gesuiti del Sociale, diverse parrocchie, le suore della Carità di S.Vincenzo.
Partimmo per primi io e suor Claudia, una suora del Gradenigo di 74 anni.
Un treno di donna.
Arrivati a Gemona dormimmo sotto una pianta vicino alla canonica di Ospedaletto, una frazione di Gemona.
Il giorno dopo arrivarono i camion con le tende e l’attrezzatura per il campo e i volontari.
Era bello vedere l’entusiasmo di queste persone nell’allestire il tutto.
Decidemmo di realizzare la nostra cucina proprio nella casa parrocchiale lasciataci dal parroco che era andato anche lui a vivere nelle tende vicino ai parrocchiani.
Ogni tanto quando la scossa di terremoto era un po’ più forte la si avvertiva e allora era un fuggi fuggi, le prime volte anche con un po’ di paura e apprensione.
Poi ci si fece l’abitudine.
Ricordo che un giorno la nostra prima cuoca, la mamma Maggiorotti, era in cucina che stava realizzando la maionese con la bottiglia dell’olio appoggiata ad una cassetto per far gocciolare adagio l’olio nella teiera.
Vi fu una scossa e allora chiamò in fretta la figlia dicendole di prendere la bottiglia e uscire adagio dalla stanza ma continuare a versare l’olio nel recipiente perché non si rovinasse la maionese.
E a pranzo ci servì l’antipasto con maionese fatta durante la scossa di terremoto. Favolosa.
Altra scenetta del campo.
Tutto il giorno e tutti i giorni si lavorava nella gran polvere e alla sera si desiderava far la doccia.
Non sempre però si riusciva far arrivare l’acqua dai tubi della potabile e allora ci siamo industriati sistemando una pompa ad immersione nel torrente che passava proprio ai lati della nostra tendopoli e poi con un autoclave collegata ad un boilerino ci si poteva lavare su una passerella che avevamo sistemato sopra la roggia.
I più decisi addirittura si legavano alla fune fissata ad un albero e si buttavano nell’acqua che scorreva sotto, tirandosi poi su per asciugarsi.
Un mattino presto alzandomi e uscendo dalla mia stanza incontrai la suora di 74 anni, suor Claudia che si stava sistemando i capelli tutti arruffati sotto il velo.
Le ho chiesto come mai i capelli così arruffati?
Mi rispose che aveva fatto la doccia.
Le ho chiesto: “ ma dove?” “dove la fate voi, ho aspettato che tutti dormissero e mi sono messa anch’io sull’asse sopra la roggia e mi son lavata con vero piacere”.
” Brava è proprio sportiva.”
Fatterelli ce ne sarebbero tanti che hanno accompagnato la vita al campo di tanti volontari giovani e meno giovani sia della parrocchia che di tutta Torino e Piemonte.
Un fatto non voglio però dimenticarlo si tratta proprio di un papà.
Nei mesi in cui siamo partiti per il campo di lavoro, ho saputo che una delle ragazze dell’oratorio si è ammalata gravemente di tumore e non poteva certamente partire con i gruppi che si alternavano a Gemona.
Il male progrediva e lei sempre più debilitata.
I genitori me lo fecero sapere e allora decisi di venire a Torino per vederla.
Ricordo che si informò di tutto quello che si faceva al campo, di come erano i friulani.
E guradandomi vide che avevo al collo una croce per segnalare la presenza di un prete.
Le piacque il crocifisso e me lo chiese, glielo lasciai.
Parlammo tra le altre cose del vino che le avevo portato. Il Verduzzo.
Prima di lasciare la sua casa mi chiese se poteva venire suo padre al posto suo a lavorare tra i terremotati.
Gli risposi di si. Ripartii la sera stessa per Gemona.
Il padre venne a lavorare al posto della figlia e ritornando a casa mi chiese una bottiglia di verduzzo perche alla figlia era piaciuto molto.
Dopo poco tempo il male la portò alla tomba e seppi che aveva chiesto di essere sotterrata con la croce di don Dino.
Si chiamava Paola.
A settembre ci fu la scossa decisiva che mise a Ko tutti i friulani che avevano già incominciato la ricostruzione perché fu veramente devastante, anch’io in quell’occasione restai sotto una casa perché stavo andando con la vespa a cercare pane per i ragazzi del campo, quando vidi la casa che stava tremando per il terremoto.
Mi buttai giù nella scarpata con la vespa e la casa crollando mi coprì di striscio e ancora oggi porto sulle labbra un segno di una pietra che mi colpì e il ginocchio destro che ogni tanto mi fa zoppicare.
Noi stavamo ricostruendo un asilo nella frazione Piovega in Gemona.
La gente scappava dalle case e si dirigeva verso Lignano sabbia d’oro, perché la regione aveva sequestrato gli alberghi.
Ma non tutti potevano dirigersi là per motivi vari.
Vicino all’asilo c’era un malato che faceva la dialisi e andando a Lignano non avrebbe avuto la possibilità d’avere le trasfusioni.
Si rivolsero a me per chiedere che cosa potevano fare.
Io telefonai a don Virginio a Torino presentandogli il caso.
Dopo due ore mi ritelefonò dicendomi che l’ospedale Molinette di Torino l’avrebbe accolto volentieri mettendolo in lista per le trasfusioni e in parrocchia avrebbe potuto trovare una degna ospitalità lui e la sua moglie.
Allora il giorno stesso li mandai a Torino con la mia mamma che era venuta a trovarmi per aiutare in cucina e l’autista che il cardinal Pellegrino aveva inviato per aiutarmi.
Così arrivati a Torino il malato potè riprendere le trasfusioni alle Molinette e la moglie Antonietta si trovò così bene con don Virginio che gli restò a servizio anche dopo la morte del marito fino a pochi anni fa.
Ritornando dal Friuli all’inizio del 1977 il Vescovo ausiliare mi propose di organizzare il volontariato in diocesi dandomi un ufficio in Curia.
Restai quindici giorni poi chiesi di darmi un prato e una baracca per costruire qualcosa, perché io non ero fatto per stare in un ufficio.
Così fui inviato a costruire la parrocchia di Maria Immacolata al Lingotto.
E in quegli anni incominciai anche a fare scuola di Religione proprio al lingotto alla Scuola Jovine.
Terminata la costruzione anche della Casa parrocchiale, il Card. Ballestrero mi ha inviato a costruire la Chiesa di S. Antonio in Borgata Lesna di Grugliasco.
Così mi trasferii anche come scuola insegnando alla Primo Levi dove dopo un anno mi toccò anche fare il Vice preside votato dai professori perché anche il secondo preside arrivato quell’anno aveva rinunciato all’incarico.
In quel periodo ammalatosi il parroco di Balme in Val di Lanzo, l'Arcivescovo mi incaricò di seguire anche quella parrocchia.
Nel 1980 sono ancora una volta tra i terremotati e precisamente a Teora nell’Irpinia con una carovana di volontari che mi accompagnavano provenienti dalle varie parrocchie conosciute e dai professori maschi della mia scuola.
Le professoresse andavano invece nella mia chiesa di S.Antonio per pulire, lavare e confezionare gli indumenti che le persone offrivano per i terremotati.
Nel 1985 il card. Ballestrero mi incaricò della parrocchia dei Beati parroci in Mirafiori dove non c’era mai stata una Chiesa.
Feci l’ingresso in un garage come parroco il 5 gennaio 1985, ma non sapendo dove andare a dormire per 3 mesi dormii sulla mia punto bianca.
Poi la mia mamma mi aiutò a comprare un negozio che allestii ad alloggio con bagno nel cortile.
Lì son rimasto fino al 2005 costruendo la Chiesa parrocchiale, la casa canonica, l'Oratorio, il campanile.
Nel 2004 ho avuto una parentesi missionaria infatti sono stato in Brasile per 3 volte in pochi mesi per seguire i lavori della costruzione della Parrocchia Luis Domingues dello stato del Maranhào nella diocesi di Ze Doca.
Nel 2005 il Card. Poletto, viste le condizioni di salute di don Viotti a Forno di Coazze, mi chiese di prendermi cura del Santuario Grotta N.S. di Lourdes, della casa di Spiritualità annessa e la piccola parrocchia di Forno.
Lasciai quindi molto a malincuore Mirafiori per salire su a Forno.
Mi accompagnarono nove pulman di parrocchiani, la maggioranza giovani più un pulman dalla parrocchia del Lingotto.
A Forno incominciai subito i lavori di messa a norma dell’edificio per il quale ero stato inviato dall’arcivescovo ed incominciai con la cucina, poi con l’impianto elettrico, poi il riscaldamento sezionandolo in varie parti per poter risparmiare quando la casa non era tutta piena.
Anche alla Grotta risistemai il presbiterio perché l’umidità aveva sgretolato il fondale delle sedi, così pure rifeci i banchi ormai consunti dal tempo.
Nel frattempo don Viotti, anziano e ammalato poco alla volta si spense e sapendo del suo desiderio di essere tumulato nella sua Opera cercai il luogo più adatto alla tumulazione.
E così riuscii realizzare una buona sistemazione per la sua sepoltura ed eventualmente anche per le sue religiose che lo desiderassero.
Nell’ingresso sistemai anche un piccolo museo di ricordi del lavoro svolto dal santo Sacerdote.
Così i lavori continuarono con il Museo sindonico, il museo della Bernardetta con l’altare delle sue reliquie.
Consolidai l’intero edificio della Casa di spiritualità facendo un rivestimento a ‘mo di cappotto e rifacendo anche tutti i balconi sostituendo ringhiere in legno con dei laminati finto legno indistruttibili.
Realizzai delle targhe che ho sistemato sul muraglione affianco alla Grotta, a ricordo dei sacerdoti che hanno aiutato don Viotti nella sua opera così anche tutte le mamme che ha fondato e che lo hanno coadiuvato fino alla fine spendendo la loro vita per l’opera.
Infine realizzai un’opera che servirà anche per il mantenimento dell’economia della grotta ed è la centralina idroelettrica che garantirà un introito annuale consistente.
Nel 2011 a settembre l’Arcivescovo Mons. Nosiglia mi ha chiesto di affiancare ai precedenti impegni anche quello di parroco a Trana.
Ancora una volta ho detto di sì ed ho accettato scrivendo però ai superiori che tenessero conto che non son più giovane.
Dopo un anno un altro impegno, quello di parroco di Sangano assieme a quello di Trana, lasciando però questa volta definitivamente il Santuario e la parrocchia di Forno.
Nel 2014 però lasciai anche Sangano per potermi dedicare escusivamente a Trana con le sue 17 borgate e 13 Chiese.