E V E N T I |
Parrocchia Natività di Maria Vergine
L'avrete notato: la porta delle chiese parrocchiali è sulla pubblica via, ed è aperta.
Tutti possono entrare.
Dentro, si trovano insieme giovani e anziani, uomini e donne, bambini e adulti, sapienti e ignoranti, persone che credono molto e persone piene di dubbi, santi e peccatori.
Tutti ci stanno come a casa propria.
Papa Giovanni paragonava la parrocchia alla fontana del villaggio dove si va ad attingere acqua, ed essa ha un dono per tutti.
Considera nessuno come estraneo.
Insomma la parrocchia è - dovrebbe essere - una comunità, un luogo dove si vive la fede, dove ci si impegna e si è attivi per servire i poveri e salvare l'uomo.
Ma non tutti pensano la parrocchia così.
Per molta gente essa è solo un pubblico servizio: gente che va a chiedere il battesimo, il matrimonio, il funerale, la celebrazione di messe, la confessione; nei momenti difficili chiede anche la casa, il lavoro, una protezione celeste.
Altri lamentano ( spesso a ragione ) che la parrocchia è ben diversa da come dovrebbe essere.
Un giorno un tale mi diceva: « La parrocchia è come un bellissimo quadro, appeso alla parete di un antico palazzo: il tempo ha sgualcito e scolorito il quadro, e non si distinguono più i personaggi dipinti sulla tela.
Ciò che risalta ora è la cornice, grossa e dorata; si è invece perduta la tela ».
Cioè l'essenziale.
La parrocchia, specie quella di città, dei grossi centri, spesso corre il rischio di essere una gran bella cornice, ma senza l'essenziale: la comunione d'amore, e un servizio attivo e fecondo per l'uomo.
Vediamo dunque come dev'essere perché risulti per tutti davvero una « porta aperta ».
Gesù Cristo aveva fondato la sua Chiesa con gli apostoli e i discepoli.
Possiamo immaginare la prima comunità in Gerusalemme come una diocesi, o una semplice parrocchia.
Negli Atti degli Apostoli essa è stata descritta in breve e forse un po' idealmente come:
• una comunità del Vangelo, nella quale si ascoltava con perseveranza l'insegnamento degli apostoli ( At, 2,42 );
• una comunità di persone che vivevano in comunione con Dìo: tutti assidui nella preghiera ( At 2,42), ogni giorno insieme frequentavano il tempio ( At 2,47);
• una comunità di persone che vivevano in comunione tra loro: stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune ( At 2,44), avevano un cuor solo e un'anima sola; nessuno diceva di sua proprietà quello che gli apparteneva ma ogni cosa era in comune; nessuno di loro poi era nel bisogno, perché a ciascuno veniva dato secondo necessità ( At 4,32-35);
• una comunità eucaristica, che spezzando il pane nelle case ogni giorno ringraziava Dio e faceva crescere la comunione tra i fratelli e con il Signore ( At 2,46);
• una comunità gioiosa, nella quale si prendevano i pasti con letizia e semplicità di cuore ( At 2,46);
• una comunità di testimonianza missionaria che otteneva di aggiungere ogni giorno nuovi membri fra quelli che erano salvati ( At 2,48).
Quella prima comunità è irripetibile, ma il suo stile è illuminante per ogni chiesa, per ogni parrocchia.
Nei primi secoli della Chiesa in ogni città si trovava un vescovo con il suo presbiterio e il popolo dei fedeli.
Il cristiano, anche se risiedeva lontano dalla città, si impegnava a partecipare all'unica celebrazione eucaristica domenicale, compiuta dal vescovo col suo presbiterio.
Quando i cristiani cominciarono a divenire numerosi, fu impossibile riunirsi tutti insieme col vescovo; nacquero così le riunioni di cristiani attorno a un presbìtero, senza la presenza del vescovo.
Poi, con la diffusione del cristianesimo nelle campagne, queste comunità si moltipicarono.
Nel 343 un Concilio tenuto a Sardica vietò che i piccoli centri avessero un loro vescovo, e ciò per non sminuire la dignità e l'autorità del vescovo stesso ( che stava acquistando un prestigio sempre maggiore nelle strutture dell'Impero Romano ).
Per parte loro i vescovi cominciarono a riconoscere le comunità sorte in periferia, che ormai avevano una loro vita religiosa e missionaria modellata sulle chiese di città: avevano un proprio presbiterio, col diritto di celebrare l'eucaristia, di battezzare, compiere i funerali, riscuotere le decime.
Anche nel medioevo la parrocchia vide nuove trasformazioni.
Poi il Concilio di Trento ( 1563 ) diede ordine un po' a tutta la materia.
Partendo dall'insegnamento di Gesù, secondo cui il pastore deve conoscere di persona le sue pecore e queste il pastore, il Concilio stabilì due princìpi:
1. il parroco deve compiere personalmente l'attività pastorale; il che comporta per lui la conoscenza diretta delle persone, la predicazione della parola di Dio, l'amministrazione dei sacramenti;
2. i vescovi devono costituire nuove parrocchie dove la cura pastorale non può essere soddisfatta adeguatamene da un solo parroco, e devono unificare più parrocchie quando invece risultano troppo piccole.
Quale sarà il numero massimo e minimo degli abitanti di una parrocchia?
Il Concilio di Trento non disse nulla al riguardo.
Durante la Rivoluzione francese si stabilì che le parrocchie di città dovessero avere almeno 6000 abitanti, ma il Papa reagì vivacemente.
Leone XII, che nel 1824 riorganizzò le parrocchie di Roma, scelse come criterio la media di 3000 abitanti ( e a tali parrocchie assegnava un parroco, un viceparroco, un sacrestano, due preti per le confessioni ).
Molti vescovi dell '800 e del primo '900 stabilirono che le parrocchie dovessero avere non più di 10.000 abitanti.
Il « Codice di diritto canonico » pubblicato da Benedetto XV nel 1917, rifacendosi al Concilio di Trento, descriveva la parrocchia come una suddivisione territoriale della diocesi, con chiesa propria, una propria popolazione, e un sacerdote - il parroco - nominato dal vescovo.
A partire dagli anni 1920, prima nelle zone di lingua tedesca e poi in Francia, in Italia, in Belgio, la parrocchia fu al centro di molte discussioni.
Ci si chiedeva: che cos'è una parrocchia? Una suddivisione della diocesi o una cellula viva del Corpo di Cristo che è la Chiesa?
È una piccola chiesa nella Chiesa, una comunità di credenti, o solo una struttura giuridica?
È una porzione geografica della Chiesa, o tutta la Chiesa su un territorio limitato?
Inoltre ci si chiedeva: in questo mondo in profonda trasformazione la parrocchia - nata in un contesto agricolo - sarà ancora in grado di evangelizzare e far vivere nella fede l'uomo moderno? o non è preferibile un altro modo di organizzare la missione della Chiesa? Per esempio privilegiare il territorio, o le scelte personali, o l'ambiente di vita?
Pio XII sentì più volte il bisogno di intervenire in questi dibattiti, per riaffermare il ruolo primario della parrocchia: « La parrocchia è la porzione più piccola dell'unico e universale gregge affidato da Dio a san Pietro.
Sotto l'autorità di un sacerdote responsabile, che ha ricevuto dal suo vescovo la cura delle anime, essa è, nella Chiesa di Cristo, la primaria comunità di vita cristiana, una comunità di dimensioni umane, così che il pastore possa conoscere le sue pecorelle e le pecorelle il loro pastore ».
Il Concilo Vaticano II ha proposto una parrocchia intesa come comunità, come assemblea di fedeli che rende presente la Chiesa « popolo di Dio », che ascolta e proclama la Parola di Dio, celebra la fede nei sacramenti, si stringe attorno a un pastore che rende presente l'apostolo, rende testimonianza dell'amore di Dio per l'uomo nella missione e nella carità.
La parrocchia è pensata come protagonista di un apostolato comunitario: composta da laici, religiosi, presbiteri, pur nella grande diversità di carismi e di ministeri, tutta insieme rende presente la Chiesa di Cristo, testimonia Cristo al mondo e nel mondo.
Gli anni dopo il Concilio videro ampie discussioni prò e contro la parrocchia, all'interno del dibattito più ampio: quale Chiesa per il mondo d'oggi? quali strutture per l'evangelizzazione e la promozione umana?
Alla parrocchia esistente si rimproverava di non essere comunità, di essere semplice aggregato di persone, di mancare di slancio missionario, di non avere fantasia, di essere luogo burocratico, scolorito, tiepido, di essere disincarnata dai veri problemi della gente e del territorio.
Un po' ovunque, in America Latina come in Francia, in Italia come in Africa, la parrocchia ha superato la prova; ma la parrocchia che ha superato la contestazione non è più quella di ieri, è una parrocchia diversa, molto missionaria, molto inserita nel territorio, molto comunitaria, articolata e strutturata su gruppi, comunità più piccole che la rendono una « comunità di comunità ».
Il nuovo « Codice di diritto canonico », al termine di questa lunga storia, descrive ora la parrocchia come una « comunità di fedeli », individuata di solito territorialmente ( nel senso che i fedeli appartenenti a un territorio appartengono anche alla comunità ) nella Chiesa particolare stabilmente costituita ( la diocesi ), con un suo parroco che agisce in qualità di pastore, sotto l'autorità del vescovo diocesano, e con la cooperazione degli altri presbìteri, dei diaconi e dei fedeli laici.
Duemila anni di storia, dunque, per approdare a una visione della comunità cristiana locale per tanti versi modellata sulla comunità primitiva descritta da san Luca negli Atti degli Apostoli.
Per molti la parrocchia è come un supermarket: secondo loro, il clero e i laici impegnati si danno da fare per trovare sempre nuovi prodotti, nuove proposte interessanti da offrire alla gente.
E la gente va ad acquistare quei beni che la interessano.
La parrocchia diventerebbe così un centro che offre servizi ...
Invece - abbiamo visto - essa è una « famiglia di famiglie » ( come la vorrebbe il Papa ), una « comunità di fedeli » o - quando è molto numerosa - una « comunità di comunità ».
Vediamo di precisare meglio, con qualche missione, qual è il suo posto e la sua missione nella Chiesa.
La parrocchia è chiamata a rendere testimonianza a Cristo, e a rappresentare in certo qual modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra; anche se è piccola e povera, essa ha la capacità di rendere visibile quel Cristo che raccoglie intorno a sé gli uomini nella Chiesa.
Proprio nella parrocchia la Chiesa - mistero di Cristo - si fa « prossima », vicina all'uomo: la parrocchia è il luogo in cui la Chiesa di Cristo - per la forza dello Spirito Santo - agisce: insegna, prega, offre il sacrificio, vive la carità.
• La parrocchia vive della memoria di Cristo, vuole continuare l'esperienza fatta dalle prime comunità cristiane intorno agli apostoli.
• Vuole mostrare nel mondo il vero volto della Chiesa una, santa, cattolica, apostolica, perché in essa gli uomini si incontrino con Gesù Salvatore.
• Vuoi essere un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le differenze umane che vi si trovano.
• Ha coscienza di essere unita, in quanto tutti i suoi membri sono figli nel Figlio, figli di Dio.
Ciò che li unisce non è volontà, o il progetto, o l'affetto, o la storia comune, ma la coscienza di essere cercati, scelti, accolti dal Padre, salvati dal Figlio, resi nuovi dallo Spirito Santo.
E questa coscienza di essere figli amati di Dio, redenti dal Cristo, templi dello Spirito, fonda la loro radicale uguaglianza e la comune missione: salvati per salvare, riconciliati per riconciliare, fratelli per creare fraternità, liberati per liberare.
• La parrocchia è dunque per tutti, non può conoscere l'esclusione.
Se Dio convoca alla sua mensa, raccoglie attorno a sé tutti perché è padre di tutti, ed è amore.
La parrocchia è comunità dove tutti sono figli, ma dove tutti sono chiamati a essere padri, perché chi sperimenta di essere amato da Dio, per impulso di missione vuole generare amore.
Ecco dunque la parrocchia, insieme madre e figlia, sempre generata dall'amore di Dio, e sempre chiamata a generare - per la forza dello Spirito - una comunità di fede, di speranza e di carità.
• La parrocchia è infine legata a un territorio, come anche Gesù aveva accettato di operare entro spazi precisi.
Ma questa sua caratteristica oggi a qualcuno fa difficoltà, oggi è molto forte il senso della scelta in tutti i campi: perché allora non potersi scegliere anche la propria parrocchia?
Non sarà male a questo punto ricordare che nella comunità cristiana è Dio che convoca.
La tendenza a volersi scegliere la propria chiesa va guardata con sospetto, nasce da una visione individualista.
Il Signore ci mette vicino a una comunità che è quella che è, una comunità che è nello stesso tempo un dono e un impegno - da accettare e in cui inserirsi per vivere - anche se risultasse chiusa o con idee diverse o non all'altezza delle nostre aspirazioni.
Dal punto di vista sociale, la parrocchia di oggi quasi mai è comunità.
È quasi sempre un aggregato, un insieme di cristiani che vivono sullo stesso territorio senza particolari legami, senza profonda comunicazione tra loro.
Dal punto di vista teologico invece le cose sono diverse: quegli sconosciuti risultano dei battezzati che camminano insieme, utilizzando i tesori di grazia che la Chiesa mette a loro disposizione.
Nella fede essi sono già una comunità, perché vivono in comunione anzitutto con Dio, e fanno propria la proposta di realizzare nello spazio e nel tempo la comunione con i fratelli.
Se la parrocchia è ( come dice Giovanni Paolo II ) una famiglia, allora è l'ambiente della generazione e formazione dell'essere cristiano - proprio come la famiglia forma l'uomo - nelle sue qualità fondamentali.
Per questo non sembra giusto costituire parrocchie di operai, di studenti, delle diverse categorie umane.
Missione della parrocchia è di far nascere uomini uniti a Cristo al di là di tutte le loro differenze naturali e sociali, di formare e di far vivere i cristiani nella vita di tutti i giorni e con i mezzi ordinari.
Come la famiglia, la parrocchia è poi una comunità formata dall'alto e dal basso.
Dall'alto, cioè dall'autorità stessa di Cristo, che è presente e agisce attraverso i suoi ministri ( i sacerdoti ); dal basso, cioè dai fedeli, che vivono con i mezzi di salvezza stabiliti da Cristo.
Così nella comunità parrocchiale tutti sono attivi e interessati, apportando ciascuno i propri doni ed esercitando i propri ministeri.
La parrocchia, come comunità umana, oggi ha di fronte a sé molti problemi.
Non è più un complesso sociale saldamente integrato come la parrocchia rurale di un tempo.
Alla base della sua attuale debolezza sociale vengono indicate numerose cause, come:
- l'estraneità alla Chiesa del mondo secolarizzato;
- la fuga nell'individuale e nella religiosità privata ( conseguenza anche del fatto che la realtà diventa sempre più complessa );
- la scomparsa del legame dell'uomo moderno con la sua residenza;
- il lavoro troppo assorbente, da un punto di vista psichico ed emotivo, che limita un attivo impegno nel tempo libero;
- la presenza quindi in parrocchia di alcune categorie sociali soltanto, cioè delle persone che non sono pienamente inserite nel lavoro ( casalinghe, anziani, giovani );
- la scarsità della comunicazione sia verticale ( dai fedeli al clero e viceversa ) che orizzontale fra i membri ( e siccome il sentimento soggettivo di appartenenza a una comunità dipende dall'intensità dei contatti fra i membri, la parrocchia trova anche qui molti ostacoli a essere comunità );
- una gestione a imbuto, per la quale le funzioni importanti sono centralizzate nel parroco o eventualmente nei suoi sacerdoti coadiutori.
Se la parrocchia vuole tornare a essere comunità in una società mobile e dinamica come l'attuale, dovrà essere flessibile e molto attenta ai cambiamenti.
Dovrà rivolgere uno sguardo particolare alla « religiosità privata », che è la minaccia numero uno della fede ( essa è infatti l'anticamera dei cristiani senza Chiesa, che sono a loro volta l'anticamera degli indifferenti e degli increduli ).
Meritano perciò la massima attenzione tutte le proposte che tendono a creare legami e a offrire occasione di incontri.
Inoltre, se vuole essere comunità viva, la parrocchia deve compiere uno sforzo intenso per realizzare la vera colla-borazione e partecipazione. Non c'è effettiva comunità fin quando non c'è qualche forma di co-decisione nelle cose che riguardano la parrocchia. Solo se riesce a trasformarsi in co¬munità fraterna con strutture in dialogo, la parrocchia non ha da temere per il suo futuro.
Ecco un altro aspetto problematico.
La Chiesa ha la sua forma perfetta solo quando è « popolo di Dio », e attinge la sua massima espressione di unità nella celebrazione della messa.
Ma sovente la parrocchia - specie quando è dotata di tante strutture ( ambienti per i giovani, sale di riunione, chiesa ecc. ) - raccoglie persone troppo disparate; si presenta come pubblico servizio per cerimonie, resta anonima e burocratica, priva di dimensione umana.
Per qualcuno, specie per quelli che hanno una religiosità individualista e privata, va bene così.
Ma per quelli che giustamente vogliono vivere la fede in modo comunitario e attivo, questa parrocchia non va bene.
Di qui la loro spinta a cercare nel gruppo l'unica, « vera » esperienza di Chiesa, che faccia da correttivo all'anonimato.
La parrocchia d'oggi ha dunque il problema di armonizzare due esigenze, che paiono contraddittorie: essere segno e luogo della Chiesa cattolica ( essere cioè Chiesa di popolo ), e nello stesso tempo luogo dove io sono conosciuto per nome, sono accolto, posso esprimermi, e dare un apporto.
Una prima cosa è certa: la grande comunità non può bastare.
La proposta del Vangelo a persone nuove, lontane dalla fede, come la crescita intensa nella fede e nella missione, esigono rapporti interpersonali profondi.
Soprattutto nelle città, i piccoli gruppi di cristiani risultano uno strumento indispensabile per offrire una prima espressione di fede ai non credenti, e per sostenere la testimonianza dei credenti.
D'altra parte la parrocchia, pur con tutti i difetti che può avere, deve conservare questo suo insopprimibile valore: essere Chiesa che raccoglie tutti, che parla la lingua di tutti.
Non può rinchiudersi in gruppi, in club esclusivi, in cenacoli per soli invitati.
Ma neppure ci si può fermare qui.
L'uomo d'oggi conosce spesso l'angoscia della solitudine, cammina nel buio dell'incertezza, vuole perciò una Chiesa che dia risposte, che sia fatta di contatti autentici, di amicizia.
Più di tutto cerca una Chiesa che dia luce, che nutra con la Parola, che cammini insieme con lui, che sia luogo di speranza e di amore.
Per far questo è necessario che la parrocchia di un certo numero di cristiani rifaccia in piccolo quello che le diocesi, all'inizio del Medioevo, hanno fatto in grande creando le parrocchie.
Si tratta cioè di articolarsi in tante comunità, territoriali o elettive, che permettano di vivere nella città d'oggi la fede e la carità.
Articolarsi in una comunità di comunità.
La Chiesa ha avuto da Dio un dono di fede non solo da conservare per sé, ma da trasmettere agli altri: è chiamata a contagiare.
Di qui il suo impegno per la creatività, la novità di vita, l'iniziativa nel mondo.
Il « che fare » della parrocchia si può riassumere in questi cinque punti: annunciare la Parola, realizzare una comunità di amore, sacramentale e missionaria, e rendersi presente nel territorio ( funzione sociale ).
Punti che meritano la nostra attenzione.
La Parola di Dio va collocata al primo posto, perché forma la comunità: la fede è il fondamento di tutto, la fede nasce dalla Parola.
La Parola crea l'unità dei cristiani.
Quando dei credenti e dei non credenti partecipano a una stessa liturgia, la distinzione tra loro è data dal fatto che gli uni rispondono con fede, mentre gli altri solo ascoltano con interesse umano.
L'unità dei fedeli nasce dalla Parola, perciò essa va continuamente proposta e ripetuta; ciò spiega perché lo stesso brano del Vangelo viene letto più volte, magari ogni anno.
L'omelia non è Parola di Dio ma è discorso umano sulla Parola, la annuncia e la attualizza.
La Parola vale per tutti i tempi e per tutti i luoghi; l'omelia la attualizza e la rende viva per l'uomo d'oggi.
La Parola di Dio è destinata a tutti i credenti, ma in particolare a coloro che nella comunità di fede sono in grado di farla fruttificare al massimo: gli adulti.
Certo i bambini, i giovani, i vecchi.
Ma la Parola di Dio si rivolge in senso più pieno agli adulti, che più di tutti sono capaci accoglierla e darle efficacia.
Comunità d'amore vuoi dire che i cristiani non stanno insieme per ragioni umane, sociali, culturali, che non stabiliscono la loro comunità solo come fatto sociologico, di vicinanza, ma la riconoscono come conseguenza del « sì » dato a Cristo.
Riconoscono cioè di essere l'uno per l'altro.
Il che significa accettare l'altro.
All'inizio ci può essere estraneità, ma occorre superare la diversità.
Non dire soltanto: « Io non faccio del male a nessuno », fermandosi all'aspetto negativo.
Dire invece: « Faccio del bene ».
L'unità in Cristo è accettare l'altro come un tu destinatario dell'amore.
Non esiste nella comunità cristiana d'amore la frase: « Non mi riguarda »: tutto riguarda tutti.
L'impegno per il fratello non nasce dal fatto che mi realizza, che mi da soddisfazione; non nasce da una benevolenza istintiva.
Nasce dall'amore in Cristo.
Il prossimo è amato così come si ama se stessi, la donazione di sé è il coronamento di un impegno di carità.
Si accetta l'altro per amore, in quanto si è tutti uniti in Cristo.
L'amore inizialmente deve avere una base naturale, umana, sociologica, viene favorito dall'essere gruppo. Il formarsi di una parrocchia comunità d'amore parte da rapporti di vicinato, di conoscenza, tra coloro che per caso vivono insieme.
Ma poi si spinge oltre.
Parte da una comunione fra coloro che sono sociologicamente vicini, e va verso una comunione d'amore senza limitazioni.
La comunità cristiana scavalca la comunità sociologica, le barriere, le differenze.
Si parte da lì, ma poi si superano le diffidenze, si fa in modo che il gruppo diventi sempre più comunità d'amore.
Questo sforzo di comunione è un compito primario per il parroco, che deve essere ministro di unità, deve agire da intermediario per far avvicinare i parrocchiani fra loro.
Anche i gruppi hanno questo compito, devono essere piccole comunità d'amore senza trasformarsi in arcipelago, in isole separate.
Ci vogliono anche strutture e iniziative adeguate: consigli parrocchiali, incontri tra gruppi, liturgia ecc.
Tutta la vita della parrocchia dev'essere vissuta in modo da favorire la comunità d'amore.
Le persone allora avranno sentimenti di benevolenza e simpatia reciproca ( anche se a livello epidermico ci saranno sempre gli antipatici, coloro che fanno problema ); assumeranno un atteggiamento attivo: tutto quello che desideriamo che gli altri facciano a noi, noi lo facciamo agli altri.
L'Eucaristia ha una funzione vitale per la parrocchia, che proprio attraverso il banchetto eucaristico diventa « quello che è »: Corpo di Cristo.
La comunità cristiana - si diceva - tende a far sì che ci sia comunità d'amore tra le persone.
Ma ciò sarebbe possibile con la sola buona volontà?
La volontà non basta a fare il salto di qualità dal peccato alla grazia.
Il peccato è una montagna troppo ripida per scalarla da soli, occorre l'aiuto di Dio, la grazia.
Il popolo di Dio deve perciò riunirsi nella comunione.
A volte il cristiano vede la messa solo come precetto domenicale o azione di pietà personale, non partecipa alla messa per far crescere la comunione.
Invece, essendo l'Eucaristia l'avvenimento che fa nascere e crescere la Chiesa, si partecipa a questa per amore della comunità e per essere comunità.
La messa dunque non è un dare a Dio mezz'ora di tempo, per prezioso che sia; è un entrare in comunione « con, per, in » Cristo, e poi un realizzare questa comunione con i fratelli dopo, quando si esce dalla chiesa.
« Andate » è la missione, l'invio, a vivere nel quotidiano la comunione sperimentata nella messa.
In parrocchie piccole la messa viene facilmente pensata come « messa della comunità »: i parrocchiani si conoscono tra loro, c'è consapevolezza di appartenere alla stessa comunità.
Nelle parrocchie grandi, o in ambienti di turismo, la messa comunitaria non è possibile.
Vanno allora cercate altre forme, come le messe di gruppo.
Però dobbiamo accettare di partecipare anche all'assemblea eucaristica di sconosciuti; è sbagliato dire: « Vado a messa quando sono a casa, in vacanza no perché non conosco nessuno ».
Anche allora si realizza la comunione eucaristica, e in modo perfetto, attraverso la fede.
L'assemblea eucaristica di sconosciuti è anch'essa segno di unità col Corpo di Cristo, esprime ugualmente la coscienza della Chiesa universale, costituita di milioni di persone sconosciute.
La Chiesa non esiste per sé, è mandata al mondo.
Anche la comunità parrocchiale è per sua natura missionaria: come la Chiesa universale ha il compito della missione, e deve tener viva la coscienza di questo compito.
Sarà missionaria verso i popoli che non conoscono ancora il Vangelo, ma egualmente verso i non credenti e i non praticanti che vivono nel suo interno.
Essi hanno bisogno di una comunità accogliente che almeno allacci rapporti umani là dove non sono possibili rapporti ecclesiali.
La parrocchia vive la sua dimensione missionaria verso le terre lontane con l'invio di persone, di aiuti economici, e con la preghiera.
L'invio di persone può riguardare anche i laici, anche coppie di sposi che vanno in missione per testimoniare con la vita che cosa significa essere di Cristo.
La parrocchia, che non è un'isola, dimostrerà sollecitudine per i lontani e per i suoi membri creando legami con altre parrocchie della diocesi, della nazione; e lo scambio giova sia a chi da che a chi riceve.
Ogni chiesa deve allargare gli spazi per la comunità.
Il Concilio ha riscoperto e riproposto anche la dimensione ecumenica: i battezzati non cattolici non devono essere convertiti ( sono separati, ma hanno fede ): da parte nostra occorre però uno sforzo per realizzare la comunione con loro.
La ricerca dell'unità è indispensabile: essere divisi è peccato grave, è scandalo.
La parrocchia deve sentirsi attratta anche dai membri che al suo interno non sono attivi, ma che non possono essere considerati perduti.
È suo compito rivolgersi a questi battezzati che non sono mai entrati nella comunità, agli esclusi dalla comunione ( i divorziati ), a quelli che per ragioni politiche o d'altro genere sono in atteggiamento di rottura ( cioè agli staccati per motivi morali, politici, ideologici, di fatto ).
La Chiesa ha da essere accogliente e madre per tutti, aperta al ritorno di quanti si sono allontanati da lei.
Territorio è un concetto moderno.
L'uomo è legato all'ambiente nel quale vive, e anche la comunità dei cristiani non può prescindere dalla più vasta comunità degli uomini in cui è inserita: deve sentirsi interpellata dalla realtà sociale, stimolata a esservi presente in forma costruttiva.
In Italia e nel mondo è in atto un vivace dibattito su quale atteggiamento deve assumere la comunità cristiana nel politico-sociale.
Sono emerse tre tendenze: la linea della diaspora ( i cristiani non hanno nulla da dire nel socio-politico, che andrebbe costruito senza il loro intervento ), la linea della mediazione e quella della presenza.
Si è detto un no rotondo alla linea della diaspora, ma c'è dibattito sulla scelta tra le altre due.
Intanto gli studiosi sono concordi nel dire che la parrocchia deve rispondere ai problemi della gente con gesti d'amore, che la parrocchia deve continuare le lotte a favore del decentramento, dell'autonomia e del principio di sussidiarietà.
Per intenderci: è decentramento il distribuire nelle periferie compiti e uffici, allontanandoli dal centro; è autonomia la facoltà di governarsi con leggi proprie, che si accompagni con la sufficienza dei mezzi a disposizione; si ha sussidiarietà quando l'autorità superiore non pretende di fare quello che possono fare gli inferiori da soli.
I cattolici italiani dal 1800 in poi hanno sempre sostenuto queste lotte.
Ora l'impegno va continuato e allargato, per instaurare un rapporto autentico col territorio.
Sull'argomento ci sarebbe un'infinità di cose da dire, ci limiteremo a qualche rapido accenno.
Occorre partire dalla considerazione che cristiani e non cristiani oggi vivono accanto; che non si deve rifiutare per partito preso il pensiero diverso dal nostro; che non basta la semplice accettazione degli altri, ma occorre solidarietà.
La parrocchia diventi luogo di esperienza permanente, di educazione al servizio e alla partecipazione.
Sono ostacoli da superare:
- la scarsa coscienza civica ( le iniziative pubbliche non interessano );
- l'inclinazione al corporativismo, che dimentica il be ne comune ( ciascuno è attento solo agli interessi del gruppo: per esempio gli ospedalieri si preoccupano dello stipendio, non se i malati sono curati a dovere );
- le tendenze anarcoidi ( ciascuno fa quel che vuole ).
Un importante mezzo di educazione al servizio e alla partecipazione è il volontariaro, ma va praticato con serietà e competenza.
E attenzione a non favorire il principio della delega: qualcuno fa, gli altri guardano ...
La prima utente del territorio è la famiglia, luogo di incontri di tanti problemi.
La cultura corrente la sottovaluta, non le presta adeguata attenzione.
La visione cristiana invece vuole la famiglia al centro, la considera cellula della società, e attenta ai suoi problemi ( casa, scuola, donne-madri ecc. ), e la stimola a rendersi presente nell'impegno sociale.
Accade che nell'evolversi delle situazioni sociali nascano nuovi problemi, emergano nuovi bisogni, che di solito la società non avverte in modo tempestivo ( attenzione agli immigrati, ai drogati, agli alcolizzati ... ).
Compito della parrocchia è assumersi questi problemi appena si manifestano sul territorio, e additarli all'attenzione pubblica, mentre la società ancora tarda ad avvertirli.
Attenta ai problemi del territorio, la parrocchia conserverà un'intelligente apertura all'universale.
Nessuna comunità è autosufficiente, non basta guardare ai problemi dei vicini, occorre ricondurre il « locale » ai problemi del mondo.
La parrocchia sentendosi in permanente cammino, guarda al futuro come a un tempo da assumere con fiducia e speranza, convinta che la storia viene costruita, che nessuno è vittima del destino, che ciascuno è responsabile delle proprie azioni.
Il futuro è carico di incertezze, ma si lascia guidare da una legge: comunicare di più, per progredire davvero.
Nel rapporto col territorio, la parrocchia non si deve porre come un ghetto ( noi organizziamo le nostre cose indipendentemente dagli altri ... ), non deve agire per sete di dominio, per conquistare il socio-politico, ma per salvare.
La parrocchia continua Cristo, che è salvatore dell'uomo.
Quindi deve ripetere in ogni situazione il mistero dell'incarnazione: II Figlio di Dio si fa uomo perché l'uomo abbia pienezza di vita e arrivi a Dio.
Inoltrandoci nel 2000, la parrocchia italiana dimostra notevole vivacità e vitalità.
Senza pretendere di essere l'unica struttura pastorale, riconoscendo l'importanza dei gruppi, dei movimenti, delle associazioni, la parrocchia sa di avere un compito decisivo per la promozione umana e l'evangelizzazione, perché il principio territoriale che la caratterizza è un'ancora di salvezza anche per la nostra civiltà fatta di nomadi.
La storia ci dice che nomadismo e stabilità si sono alternati: ci sono momenti di prevalenza ora dell'uno ora dell'altra.
Oggi la cultura è del cambiamento, del nuovo, del diverso, ma con sbocco a sorpresa: « Mi piace il nuovo, ma a un certo punto non riesco più a valorizzarlo; allora torno a casa con tutti i miei problemi, li espongo, e dò unità alle mie esperienze ... ».
La parrocchia sa di doversi rinnovare, valorizzando le più svariate piste: la liturgia e la religiosità popolare, le comunità di base e la presenza sul territorio.
Essa accetta la sfida del mondo: se il mondo è complesso, anche la vita in parrocchia sarà complessa.
Non si può puntare solo su un aspetto, solo sulla liturgia, o solo sui giovani, o solo ...
Ci si deve adattare alla complessa realtà in cui si vive.
La parrocchia sa inoltre di non essere autosufficiente.
Essa è cellula, non ha tutto, deve essere in osmosi con il resto, deve collegarsi con la realtà diocesana.
La parrocchia vuoi essere « chiesa del quotidiano », e nello stesso tempo vuoi essere il « quotidiano vissuto nella Chiesa »: non è mai il luogo della fantasia, o solo il luogo dell'esplosione del festivo.
È la chiesa del feriale, senza il quotidiano non c'è la vita.
Diciamo in schema: la parrocchia del futuro, se vuole essere comunità evangelizzatrice, dovrà essere comunità missionaria e liturgica, comunità nel territorio, comunità di comunità, comunità ministeriale.
Vediamo in che senso.
La parrocchia da anni è cosciente di non essere vitale quando si limita a fare « politica interna », quando si racchiude in se stessa.
Se si accontenta di conservare ciò che ha ricevuto, non è comunità vera, non risponde all'imperativo missionario.
Sa di dover essere per l'accoglienza, e di non poter tollerare in sé l'esclusione, perché « la paternità di Dio non ha confini ».
Se Dio è Padre di tutti, anche la paternità della comunità cristiana non deve conoscere confini.
La parrocchia vuol essere il perdono e la misericordia di Dio, per il peccatore.
Quando alla canonica non bussano i falliti della vita, i poveri, i peccatori, c'è qualcosa che non va, qualcosa di falso.
Se il povero non trova più lì la sua casa, la parrocchia non è fedele a Cristo.
Sarà efficiente, ma non ha il volto accogliente del Signore.
La parrocchia sa di non essere una specie di fortezza cinta d'assedio che occorre difendere, ma un avamposto missionario della Chiesa.
Deve quindi accogliere, e deve andare dove c'è la gente.
Si sa che nei paesi dove la Chiesa per cause politiche non può svolgere le sue attività, riesce a vivere grazie alla liturgia.
Attraverso i sacramenti, soprattutto l'Eucaristia, la comunità diventa corpo di Cristo.
Una vera assemblea liturgica dà alla parrocchia indicazioni per vivere le situazioni di vita, dice le parole giuste per vivere il momento particolare.
Nei casi di tensione o divisione, propone pace e riconciliazione, nei periodi di apatia sollecita alla preghiera e all'impegno, nei momenti di difficoltà sottolinea il senso di responsabilità quando c'è richiesta di ospitalità invita all'accoglienza, nei momenti di disgrazia e di lutto richiama alla speranza.
La liturgia interagisce con la vita, forma la comunità, e dialogando con la vita lancia continui messaggi.
I vescovi italiani nel 1981 hanno ricordato che « bisogna ripartire dagli ultimi », che essi sono il segno drammatico della crisi attuale.
L'impegno cristiano è di essere come Gesù, al quale accorreva gente con tanti bisogni, materiali e spirituali; e Gesù guariva, sfamava, perdonava, era attento a tutti i problemi dell'uomo.
I contenuti della missione della Chiesa hanno visto spostamenti, di recente.
Fino al Concilio, al centro c'era la Chiesa con i suoi problemi.
Poi il Concilio nasce per rispondere a una domanda di « politica interna »: chi sei, tu Chiesa?
Durante il Concilio ci si chiederà: chi sei tu, Chiesa, nei confronti del mondo?
E si discuterà il tema, anche se in partenza non figurava nell'ordine del giorno.
Si è così passati dall'ecclesiocentrismo a un servizio all'uomo, da una missione sacralizzata dentro il tempio, a una missione sociale e politica.
I cristiani come singoli e come comunità sono dunque stimolati ad assumere come impegno il primato dell'uomo così come emerge dalla rivelazione: se il Padre ha dato suo Figlio per la salvezza dell'uomo, tutto ciò che i cristiani possono fare per l'uomo è sempre poco.
La salvezza riguarda tutto l'uomo: sia la sua crescita naturale che la soprannaturale.
I due aspetti vanno tenuti uniti, secondo l'esempio di Gesù, che sfamava mentre annunciava la Parola e perdonava i peccati.
Nella comunità cristiana si prende coscienza che è necessario difendere l'uomo, non Dio, non Gesù Cristo, che non hanno bisogno di difensori.
I cristiani si riuniscono in assemblea non solo per celebrare l'Eucaristia, ma anche per prendere visione dei problemi dell'ambiente, per analizzarli, individuare linee di intervento e decidere cosa fare per essere « samaritani » per l'uomo.
Parliamo di parrocchie che contino almeno due o tremila persone.
Attorno agli anni '50 l'Azione Cattolica aveva proposto di trasformare la parrocchia in una comunità di « basi missionarie » di evangelizzazione.
Il progetto fu allora abbandonato perché le parrocchie non erano pronte.
Ma dopo il Concilio le coscienze sono maturate, e la tendenza attuale è appunto di percepire la parrocchia come comunità di comunità: familiari, territoriali, elettive, settoriali.
La Chiesa del dopo Concilio riconosce tutta l'importanza della famiglia.
La CEI nel 1969 scriveva: « È necessario che la famiglia diventi il centro unificatore dell'azione pastorale ».
La famiglia deve diventare soggetto: non solo oggetto di proposte, ma artefice di evangelizzazione.
Si moltiplicano sempre più le proposte perché essa diventi protagonista, sappia vivere come « chiesa domestica », diventi centro di culto, di ascolto della parola e di catechesi domestica, centro di esercizio della carità, centro di missione fatta dalla famiglia intera.
E così la parrocchia, come dice Giovanni Paolo II, risulterà davvero « famiglia di famiglie ».
Oggi le parrocchie si stanno comportando come nel medioevo le diocesi, che formarono le parrocchie.
Le grandi parrocchie promuovono comunità che si riuniscono in vari punti, con un animatore, e si tengono collegate tra loro per la liturgia festiva, per momenti formativi, di preghiera e di verifica.
Non si mira con ciò a una divisione della parrocchia, ma a valorizzare la realtà di vicinato, per vivere in modo comunitario la fede e la carità.
Le piccole comunità vogliono essere una presenza di Chiesa sul grande territorio, vogliono portare la Chiesa là dove c'è la gente.
Da sempre accanto all'organizzazione territoriale esiste un libero aggregarsi.
Il mondo d'oggi è caratterizzato dalla libertà.
La Chiesa deve accogliere e va orizzare la scelta libera, deve essere attenta alle comunità elettive che nascono dal libero aggregarsi ( Acli, Scout, Focolarini ... ), luoghi di riscoperta e crescita nella fede.
La parrocchia - si diceva è il luogo della fede e del quotidiano, quindi non sarà mai tanto entusiasmante.
Ma una proposta per vivere con intensità la fede è quella che viene dal gruppo, nel quale la gente trova qualcosa di umanamente e spiritualmente ricco.
Noi siamo eredi di un periodo nel quale si sono fatti molti sforzi per l'evangelizzazione settoriale, specializzata, dei fanciulli, adolescenti, giovani, fidanzati ecc.
Anche oggi l'impegno continua.
Questo stile di intervento risponde infatti a un'esigenza importante: quella di interpretare la propria esistenza, la propria situazione, alla luce della Parola di Gesù.
Ci si accorge però che tutto questo va integrato con l'impegno familiare, territoriale, elettivo, in modo che si crei una vera comunicazione tra le persone.
La parrocchia del 2000 si prospetta come comunità ministeriale, aperta al servizio.
La riscoperta di una Chiesa popolo di Dio, ha fatto tramontare un'immagine della parrocchia di tipo autoritario e monarchico, ha dato spazio a una comunità fraterna, dove c'è ampia differenziazione di ruoli.
Alla base di questo nuovo modo di essere non sta tanto il bisogno di risultare più efficienti, più organizzati, ma c'è una ragione di fedeltà a Dio.
Il popolo di Dio è articolato, e anche quando si fosse convinti che fare da soli o in pochi è meglio, va rispettata la natura della Chiesa, che vuole la parrocchia come comunità in cui ogni credente arreca il suo apporto.
Mentre la parrocchia di ieri è stata principalmente guidata dai professionisti dell'evangelizzazione, sacerdoti e religiose, la tendenza attuale è di allargare gli sforzi alla partecipazione, valorizzando il volontariato nella catechesi, nell'animazione dei gruppi, nel caritativo ...
Così diversa, dunque, la parrocchia del 2000.
Nella fedeltà all'uomo d'oggi, e al Cristo di ieri, di oggi e di sempre.
Dalla porta aperta della Chiesa parrocchiale come non veder sbucare - almeno con la fantasia - proprio lui, il parroco?
Tra tutti gli uomini della parrocchia è il primo a balzare subito in mente.
E almeno per aver dovuto ricercare con lui tra le scartoffie del suo ufficio parrocchiale un qualche documento, tutti lo conoscono, compresi i lontani e i contrari.
Quel suo nome, parroco, è abbastanza antico: risale al 1300; prima lo si chiamava curato, perché aveva la « cura » delle anime; o plebano perché si occupava della plebs, il popolo.
L'antico Codice di diritto canonico, in cui c'era poco spazio per i laici, gli attribuiva molto potere, però « da esercitarsi sotto l'autorità del vescovo ».
Il Concilio e il nuovo Codice gettano sul parroco una luce meno autoritaria e più cordiale.
Vediamo che cosa dicono di lui.
Il Vaticano II non si è preoccupato di dare definizioni del parroco.
Ma ha detto: « I principali collaboratori del vescovo sono i parroci, ai quali come a pastori propri è affidata la cura delle anime in una determinata parte della diocesi ».
Essi « devono svolgere la loro missione di insegnare, santificare e governare in modo che i fedeli si sentano membri della Chiesa universale ».
Il Concilio ha pur sempre ricordato che il parroco agisce sotto l'autorità del vescovo, ma descrivendo la parrocchia come « comunità » ha fatto notare che il parroco non è sopra i parrocchiani e sotto il vescovo, bensì è con i parrocchiani e con il vescovo.
Come collaboratori del vescovo i parroci sono stati descritti in un successivo documento: « A titolo particolarissimo sono collaboratori del vescovo.
Sono essi infatti il tramite tra i fedeli e il vescovo ...
Tengono le veci del vescovo, lo rappresentano in mezzo alla comunità parrocchiale ...
Il parroco rende presente in una porzione della diocesi - con tutte le conseguenze di tanta responsabilità - il molteplice servizio del vescovo, cioè di maestro, sacerdote e pastore » ( Ecclesiae Imago ).
Il recente Codice di Diritto Canonico ( 1984 ) raccoglie le precedenti indicazioni in una definizione ampia e completa: « II parroco è il pastore proprio della parrocchia affidatagli, esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l'autorità del vescovo diocesano, con il quale è chiamato a partecipare al ministero di Cristo, per compiere le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l'apporto di fedeli laici ».
È dunque pastore, come dice il testo: una bella immagine biblica, che anche Gesù attribuì a se stesso.
E inoltre: « pastore proprio della parrocchia », cioè non un semplice delegato del vescovo per fare quel che gli viene detto di fare, ma con una sua propria responsabilità personale.
Il suo compito è di servo della comunità, mediante la predicazione e la celebrazione del culto.
Ha il dovere di riconoscere e promuovere la missione che i laici esercitano nella chiesa; non è un capo isolato e autoritario ma un coordinatore, chiamato a valorizzare l'apporto degli altri.
Gli si richiedono molte qualità.
Dev'essere sacerdote; deve « distinguersi per sana dottrina e onestà di costumi », deve avere spirito missionario, senso pratico, sensibilità e capacità di comunicare con la gente; dev'essere adatto per « quella » parrocchia.
Nel descrivere le sue funzioni di « insegnare, santificare e governare » al servizio della comunità, il nuovo Codice così lo impegna: « La Parola di Dio sia integralmente annunciata a coloro che si trovano nella parrocchia mediante omelia, istruzione catechistica ...
Abbia cura della formazione cattolica dei fanciulli e dei giovani ...
Si impegni perché l'annuncio del Vangelo giunga anche a coloro che si sono allontanati dalla pratica religiosa ...
Faccia in modo che l'Eucaristia sia il centro dell'assemblea dei fedeli ...
Si adoperi perché i fedeli si nutrano mediante la celebrazione dei sacramenti, siano formati alla preghiera e partecipino alla liturgia ...
Cerchi di conoscere i fedeli, visiti le famiglie partecipando alle loro angosce e ai loro lutti, confortandoli nel Signore, correggendoli ... ».
Insomma il parroco risulta il padre che deve far crescere tutti, il fratello maggiore in cammino con i fratelli: non il gestore unico della parrocchia, ma il centro di unità.
II Codice prevede che per la cura della parrocchia possano essere nominati, oltre al parroco e al suo fianco, altri sacerdoti chiamati vicari parrocchiali.
Il Codice precisa che operano « nei ministeri pastorali in comune consiglio e impegno con il parroco, e sotto la sua autorità ».
Sono dunque in aiuto alla parrocchia, non ... al parroco.
Si occupano dei malati, delle associazioni, dei giovani, dei ragazzi.
II parroco, i vicari parrocchiali e - in penembra sotto il velo discreto - le suore dai mille abiti differenti.
Una religiosa è una laica, ma rispetto agli altri laici si trova in una posizione particolare: la consacrazione religiosa la rende volontaria, libera, intraprendente; le conferisce una disponibilità totale per il Regno.
Tutta la sua vita, spiega il nuovo Codice, deve essere piena di spirito apostolico, la sua azione deve essere informata dallo spirito religioso e procedere da un'intima comunione con Dio.
In Italia le suore sono centoventimila, e con la parrocchie nel cui territorio risiedono hanno dei rapporti diversificati.
Alcune suore non sono direttamente impegnate in opere parrocchiali ma si occupano di opere proprie ( cliniche, orfanotrofi, scuole ): sono come famiglie che vengono ad abitare lì, con i diritti e i doveri di ogni buon cristiano.
Ma per lo più le comunità di suore hanno un aggancio concreto con la comunità dei fedeli, se non proprio un legame giuridico con la parrocchia: basti pensare agli asili nido, alle scuole materne ecc.
E poi numerose comunità offrono alla parrocchia una collaborazione diretta e disinteressata in varie forme.
Ci sono infine le « religiose collaboratrici parrocchiali », che lavorano a tempo pieno in parrocchia e per la parrocchia: sono ancora poche in Italia, negli elenchi ufficiali risultano circa 200, ma tutto lascia credere che cresceranno molto.
Queste collaboratrici o assistenti parrocchiali ( come anche le chiamano ) non sono il frutto solo della diminuzione dei sacerdoti, come si sarebbe tentati di pensare.
Nascono dalla rivalutazione del ruolo della donna nella società e nella Chiesa, dall'esperienza di giovani chiese aperte all'uomo, dalle necessità di un rinnovato impegno apostolico.
Alcune assistenti parrocchiali hanno un incarico di collaborazione generale, ad altre viene assegnato un settore specifico, come visitare i poveri, gli ammalati, occuparsi delle iniziative di carità, della catechesi, del canto, della liturgia.
Qualunque sia il motivo della loro presenza nelle parrocchie, le suore fanno presto ad attirarsi simpatia e stima da tutti.
A cominciare da Giovanni Paolo II, che un giorno diceva loro: « La Chiesa e la società hanno estremo bisogno della vostra presenza orante e adorante, della vostra testimonianza evangelica, della vostra fede limpida e umile, che opera mediante la carità.
Quanto potete fare oggi per la Chiesa e l'umanità!
Esse attendono il vostro impegno generoso, e la dedizione del vostro cuore libero.
La vostra vocazione merita la massima stima da parte del Papa e della Chiesa, ieri come oggi.
Per questo voglio esprimere la mia gioiosa fiducia in voi.
Sappiate che il Papa vi accompagna con la sua preghiera e si compiace della vostra fedeltà alla vostra vocazione, a Cristo e alla Chiesa.
I laici rappresentano il novantanove per cento, e anche più, di ogni parrocchia.
È già interessante la storia del loro nome.
La parola laico, dal greco laòs ( popolo ), significa membro del popolo.
Nel Nuovo Testamento il riferimento andava subito al « popolo di Dio », in contrapposizione a coloro che non ne facevano parte, che non erano Chiesa.
Ma ben presto il riferimento cambiò, e non in meglio; laico venne usato a distinguere il semplice fedele dal diacono o dal presbitero; fino al Vaticano II ebbe questo significato meramente negativo, indicò colui che non era prete.
E almeno in Italia il termine si caricò di sfumature ostili: laico ancora oggi, in certi contesti, significa contrario alla Chiesa.
Ma il Concilio ha voluto restituire alla parola laico il suo aspetto positivo di membro del popolo di Dio, in una visione più matura della Chiesa.
Anche quest'ultima parola ha il suo bel significato di origine greca, vuoi dire « convocazione ».
La Chiesa infatti nasce dall'iniziativa di Dio che « convoca » il suo popolo, e lo invia a testimoniare al mondo l'amore del Padre manifestatosi in Cristo.
In questa prospettiva del Concilio, il laico è un battezzato rinato alla vita di Dio, un consacrato, un soggetto attivo e responsabile, un membro della comunità cristiana, che assume su di sé la triplice missione di Cristo: profetica, sacerdotale e regale.
Il Concilio si è soffermato a indicare il ruolo dei laici nel mondo: essi « sono chiamati da Dio a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l'esercizio del proprio ufficio e sotto la guida dello spirito evangelico, a manifestare Cristo agli altri con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, speranza e carità ».
A questi concetti fa eco la « preghiera eucaristica quarta » delle nostre messe che dice: « Noi ti lodiamo, Padre santo, per la tua grandezza: tu hai fatto ogni cosa con sapienza e amore, a tua immagine hai formato l'uomo, alle sue mani operose hai affidato l'universo perché, nell'obbedienza a te suo creatore, esercitasse il dominio su tutto il mondo ».
II laico, dicevamo, assume su di sé la triplice missione di Cristo: profetica, sacerdotale e regale.
• Ogni laico per la partecipazione alla profezia, diventa testimone e annunciatore della Parola, ognuno riceve lo Spirito Santo per annunciarla fino all'estremità della terra.
E l'annuncio, effettuato dai laici, ha particolare efficacia.
• Ma il laico partecipa anche - sia pure in grado minore del presbitero - alla funzione sacerdotale.
Egli la esercita soprattutto attraverso il culto spirituale, prendendo la propria vita e mettendola sull'altare, offrendo l'esistenza in, per, con Cristo al Padre.
Questa offerta spirituale trova il suo culmine nella messa, dove ognuno deve offrirsi, immolarsi con Gesù e trasformare la sua esistenza.
Nell'offertorio si compie infatti l'offerta dei frutti della terra, e l'offerta del lavoro umano, perché tutto diventi corpo di Cristo.
• II laico infine partecipa alla funzione regale di Cristo.
Cristo è colui che nella propria morte e risurrezione sconfigge il male; perciò partecipare alla sua morte e risurrezione è per il cristiano sconfiggere il proprio egoismo e il male che è nel mondo.
Partecipare alla funzione regale è mettersi al servizio dell'uomo, perché questi sia liberato e diventi veramente figlio di Dio, è dare a tutti questa libertà di figli di Dio.
Si apre così la prospettiva dell'apostolato dei laici, che oggi ha motivi particolari di urgenza perché la gente è aumentata, il progresso è maggiore, le relazioni umane sempre più strette.
Inoltre i sacerdoti sono pochi, e in alcune situazioni sono privati della libertà di ministero.
I laici della parrocchia sono dunque ben importanti, e non solo perché costituiscono il novantanove per cento delle presenze.
L'apostolato dei laici va esercitato nella comunione ecclesiale.
I laici sono membra del corpo che è la Chiesa, la loro missione va quindi esercitata in comunione con la Chiesa, con spirito di collaborazione attiva e responsabile.
Le parrocchie, senza questa partecipazione attiva dei laici, non esistono.
In particolare, nella parrocchia i laici devono agire in unione con i sacerdoti, presentare i problemi, dare il loro contributo alle iniziative.
Tocca a loro far presenti le necessità: essi sanno dire se le cose vanno bene o male.
Il più delle volte forse non hanno proposte in ordine ai cambiamenti, ed esprimono solo delle sensazioni.
Ma è già qualcosa.
Il parroco coglierà la suggestione per tradurla in pratica.
L'importante è che i laici non siano massa silenziosa, ma espressione dell'opinione pubblica della Chiesa.
Poi sono chiamati a dare il loro contributo alle varie iniziative: « secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, facciano conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa », suggerisce il Concilio.
E aggiunge: « I pastori li incoraggino, perché intraprendano opere anche di propria iniziativa ».
I laici possono esercitare l'attività apostolica individualmente, o come membri di gruppi.
L'apostolato individuale è fondamentale nei paesi dove la vita della Chiesa è impedita: lì non si può che contare sull'iniziativa dei singoli.
Importante è anche dove i cattolici sono pochi o dispersi.
Apostolato come?
I modi sono tanti: apostolato della Parola, della preghiera, della sofferenza, della penitenza, della carità.
Come membri di particolari gruppi poi, i laici trovano con i loro sacerdoti e suore nuove possibilità di realizzarsi in pieno.
La parrocchia è dunque « casa di tutti », dove tutti sono invitati a entrare.
Il parroco vi ha maggiori responsabilità, ma non il monopolio del potere.
C'è posto per tutti gli altri, perché a tutti Gesù ha detto « sarete miei testimoni ».
In parrocchia c'è molto da fare.
Nell'indicare la vocazione essenziale dell'uomo, il piccolo catechismo di una volta diceva: « conoscere, amare e servire Dio », ma avrebbe potuto aggiungere anche: «far conoscere, far amare sfar servire Dio».
Per questo accanto al parroco ci sono i vicari parrocchiali, i diaconi permanenti ( meritano almeno un accenno: sono già 246, nel 1982, in Italia, e sono in continua crescita ), ci sono le suore, e i religiosi ( anch'essi meritano un accenno: sempre nel 1981 sono 29.137, di cui 6.532 laici ) ...
E insomma i fedeli: quel 99 per cento di laici che si presentano come singoli o raggruppati in movimenti e associazioni, dai chierichetti ( oggi li si chiama solennemente ministranti, ma sono i ragazzini di sempre ) fino ai gruppi di impegno religioso e sociale, fino al prezioso gruppo dei catechisti.
Il sogno di tutti i parroci è di vedere tutti presenti, tutti attivi.
Tutti in qualche modo impegnati.