C'era una volta una torre ...
Poco fa, prima che mi lasciassi prendere la mano dalla fantasia e dalla voglia di fare un po' di ironia a proposito di quanto accadde alla fine del primo millennio dell'era cristiana, ho detto che in zona esistono due torri, di cui una è quella di Trana, detta anche "del Belvedere" oppure "torre saracena".
Questo bellissimo manufatto è tutto ciò che oggi rimane dell'antico castello che un tempo sorgeva ai suoi piedi e di cui, ora, tentiamo di ricostruire la storia.
"Torre saracena" affermano dunque alcuni storici.
Ma cosa si intende esattamente per "saracena"?
Vuol forse dire che furono i Saraceni ad edificarla, oppure che questo nome deriva dal fatto di essere servita come difesa dai loro attacchi?
Che si tratti di una costruzione saracena sorta durante la lunga permanenza di questi predoni nella zona è poco probabile, ma non è affatto da escludere.
I Saraceni, è noto, erano specializzati nel saccheggio di villaggi e campagne, ma risulta che talvolta abbiano fatto anche qualcosa di buono, come, ad esempio, importare dapprima in Spagna, poi ai provenzali di Marsiglia, l'uso dei tappi in sughero per le bottiglie di vino, oppure abbiano eretto qualche muro e qualche torre di difesa, scavato caverne, gettato ponti o incanalato corsi d'acqua.
Di solito, dove capitavano, incendiavano, distruggevano e poi se ne andavano di gran fretta.
Però è successo anche il contrario.
Quindi, l'ipotesi che l'origine di questa torre sia dovuta effettivamente a quella marmaglia di ladroni e di assassini, ripeto, non è da scartare a priori.
La sua linea, infatti, ricorda molto quella di molte torri che personalmente ho osservato in tutto il Nord Africa, specialmente in Tunisia e in Algeria.
Tuttavia è più logico pensare che all'arrivo dei Saraceni la torre esistesse già e che pertanto siano stati i Romani a tirarla su per poter controllare dall'alto il transito sul sottostante guado, o ponte.
Oppure, chissà, per dotare Trana di un ottimo punto di difesa, considerata la posizione strategica del cocuzzolo su cui la torre fu eretta.
Altra ipotesi è quella che, pur essendo di origine romana, al tempo delle scorrerie dei Saraceni la torre fosse già alquanto mal ridotta, per cui Arduino Glabrione ordinò che fosse rattoppata, così come fece per quella adiacente alla chiesetta di San Bartolomeo, alla borgata Sada di Avigliana, in modo da poterla utilizzare per scopi militari.
Rattoppata e, forse, anche sopraelevata di qualche metro, con probabile eliminazione dei merli "a coda di rondine".
Cessato il pericolo saraceno, la torre subì di sicuro una trasformazione.
Dico "di sicuro" in considerazione che quasi tutti i testi storici da me consultati riportano un preciso cenno a questo riguardo.
Ne scelgo uno per tutti, «Valle e pianura del Sangone» di Giuseppe Massa, pubblicato a Giaveno nel 1985.
« Questa torre - scrive l'Autore -, a poco a poco, fu poi chiusa da imponenti fortificazioni, cosidette "del Belvedere" ».
È il primo passo verso l'edificazione del castello che un secolo e mezzo più tardi esisteva già ed era in piena efficienza.
Quello che, purtroppo, non ho trovato da nessuna parte, e che pertanto meriterebbe una specifica ricerca negli archivi storici, è il momento della definitiva trasformazione da fortilizio a costruzione residenziale.
Ma soprattutto sarebbe interessante conoscere il nome del primo signorotto che si insediò in maniera stabile fra le mura di questo castello, che doveva essere anche molto grazioso, e che vi passò la prima notte dopo aver fatto installare, in una delle sue numerose stanze, il consueto letto "a baldacchino".
Per cercare di scoprire qualcosa della storia locale occorre inevitabilmente rifarsi agli avveni-menti della "grande Storia".
Ma, a questo punto, le cose si complicano parecchio ed il racconto rischia di diventare noioso, motivo per cui cercherò di riassumere in breve le vicende storiche al fine di consentire alla lettura la maggior scorrevolezza possibile.
L'istituzione di alcuni grandi feudi affidati ai cosiddetti vescovi-conti fu un'idea di Ottone I, nel tentativo di porre fine all'"anarchia feudale" nata nell'888 alla morte di Carlo il Grosso, l'ultimo esponente dell'impero carolingio.
Nominato imperatore nel 962, Ottone pensò che la soluzione migliore fosse quella di affidare i suddetti feudi a vassalli a lui fedeli, in modo da contrapporre costoro al potere della nobiltà locale.
E così fecero anche i suoi successori, Ottone II e Ottone III, nonché Enrico III di Sassonia, sotto il cui dominio fu eletto vescovo di Torino un certo Gezone.
Costui, nel 1006, fondò il monastero di San Solutore, situato appena fuori le mura della città, nel luogo dove più avanti sorgerà la "Cittadella", donando a questo monastero la "corte" di Sangano ed alcune chiese già presenti nella pianura attraversata dal Sangone, cioè quella di Sangano, Bruino, Piossasco, Reano e Trana.
Quando, nel 1011, il vescovo Landolfo confermò la piena validità della donazione stabilita dal suo predecessore, si trovò all'improvviso di fronte ai "musi lunghi" di Olderico Manfredi, marchese di Torino, e di tutta quanta la nobiltà torinese, la quale non vedeva certo di buon occhio la politica dell'imperatore, altamente dannosa dei suoi diritti.
I contrasti si accentuarono poi con i discendenti di Olderico, Adelaide e Umberto II, finché, nel 1136, con Amedeo III, "musi lunghi", parole e carte bollate non bastarono più, e si venne allo scontro diretto.
Amedeo fu costretto a lasciare Torino dal vescovo Ariberto, spalleggiato dal l'imperatore, ma vi ritornò quasi subito, riprendendosi con la maniera forte terre e castelli.
Poi partì per una Crociata, la seconda, non di sua iniziativa, questo sia ben chiaro.
Ci andò su "invito forzato" di papa Eugenio III, che volle punirlo per essersi schierato contro il vescovo di Torino, e finì col lasciarci le penne.
A rendere più complessi i rapporti fra il potere laico e quello ecclesiastico era però sorto un terzo elemento, costituito dal nuovo ordinamento comunale che la città di Torino aveva istituito nel frattempo, alla quale, nel 1111, l'imperatore aveva concesso alcuni diritti riguardanti il transito nel tratto della "via Francigena" compreso fra la località di Sant'Ambrogio e Torino.
Il che aveva costretto Amedeo III, quando era ancora in vita, a cercarsi un'altra via di comunicazione con Susa ed i passi che conducevano in Francia.
La possibilità era costituita dalla cosiddetta "variante meridionale alla via Francigena", una strada secondaria che, partendo appunto da Sant'Ambrogio ed evitando Rivoli, passava fra i due laghi di Avigliana, raggiungeva Trana e proseguiva poi per Sangano, Rivalta ed Orbassano.
Secondaria come importanza, ma non certo nuova come strada, poiché fin dal tempo dell'occupazione romana, come abbiamo già visto, essa era stata ampiamente sfruttata, collocando Trana, per via dell'attraversamento del Sangone proprio in prossimità dell'abitato, in una posizione alquanto strategica.
Giuseppe Massa, nel suo libro « Valle e pianura del Sangone », riferisce che in questa zona « ...i signori locali erano divisi tra alleati del vescovo di Torino ed alleati del conte, e che il signore di Rivalta, con castello anche a Reano ed a Trana, era dichiaratamente ostile al conte di Savoia, essendosi impegnato ad aiutare Torino ed a mettere a disposizione del nuovo Comune i suoi castelli in caso di guerra contro il conte ».
Questo avveniva nel 1149, e il signorotto in questione si chiamava Risbaldo, appartenente ai signori di Rivalta.
Questa notizia è doppiamente importante.
Primo, perché conferma che in quell'anno la trasformazione del castello di Trana da fortilizio ad edificio residenziale era già avvenuta.
Secondo, perché permette di aprire momentaneamente una parentesi riguardante i "signori di Trana" nonché quelli "di Rivalta", i quali, come vedremo tra poco, risulteranno strettamente collegati.
« Le vicende feudali e l'alternarsi o l'affiancarsi dei feudatari nel dominio di Trana costituiscono una materia estremamente complessa ».
Così, purtroppo, esordisce Gustavo Mola di Nomaglio in « Segusium » nel capitolo intitolato « Tra Savoia e Delfinato: feudi e feudatari lungo la via Francigena ».
Sottolineo "purtroppo", dal momento che contavo molto su tale opera per cercare di fare piena luce sul periodo feudale di Trana.
Mola prosegue asserendo che « Anticamente il feudo era posseduto dai signori di Rivalta, un ramo dei quali prese il nome di "signori di Trana", e dai Falconeri o Falconieri ».
Ma lo stesso Mola ammette che i pareri in materia sono alquanto discordi.
Lo storico Antonio Manno, ad esempio, sostiene che i Falconeri fossero una diramazione degli stessi "signori di Rivalta", mentre il Guasco dice che appartenevano ai "signori di Cumiana".
Poi, ad accrescere la confusione, si aggiunge il Gabotto, secondo il quale non va esclusa l'ipotesi che « i signori di Rivalta, Cumiana e Trana fossero un'unica famiglia, i cui vari rami assunsero speciali cognomi ».
Al che Mola rimanda il lettore ad una constatazione del Manno: « Non posso gittarmi in tale ginepraio, né credo sianvi, attualmente, un sufficiente corredo documentario per uscirne con conclusioni sicure » e conclude il brano dedicato alla voce "Trana" dicendo: « Per fare luce in modo definitivo sulla storia feudale di questa località occorrono ben più impegnative ricerche d'archivio ».
Ma, nel bel mezzo del testo del Mola, ad ingarbugliare maggiormente la situazione, ecco sbucare anche il nome degli Orsini, a conferma di quanto nel frattempo mi era stato riferito da più parti a proposito degli antichi feudatari di Trana.
Sulle prime, ero fermamente convinto che questo nome fosse collegato a quello dell'antica famiglia patrizia romana che ebbe origine da Orso di Borbone, nipote di papa Celestino III.
In calce allo stesso capitolo, in una nota, Mola riporta infatti l'opinione del Manno su questa annosa questione, opinione basata su precedenti ricerche degli storici Guasco e Cibrario: « Nel '500 i signori di Rivalta - o, quanto meno, il ramo principale della famiglia - iniziarono a denominarsi abitualmente Orsini.
Ciò fu dovuto all'aggregazione all'omonima casata romana, per una pretesa, ma improbabile, origine da essa.
Curiosa questa ambizione dei signori di Rivalta, di origini probabilmente ben più insigni degli Orsini di Roma, anche se questi erano celebri per aver dato alla Chiesa pontefici e numerosi cardinali ».
Sebbene non sia il caso di fare del campanilismo, questo commento del Mola risulta piuttosto gratificante nei riguardi della nobiltà di questa fetta del Piemonte, la quale, invece, per tentare di accrescere il proprio prestigio, cercava, o meglio, inventava agganci nell'ex-capitale dell'Impero Romano.
Nella dettagliata relazione di Gustavo Mola sono inoltre elencati i feudatari che si sono alternati a Trana nel periodo compreso fra il 1283 e il 1796, oltre ai già citati signori di Rivalta, poi diventati Orsini, ed ai Falconeri.
Troviamo allora i signori di Reano, poi i Balbo, i Drago, i Gromis, i Gastaldi, i Baronis, i Bertoglio, gli Olivero e i Bergera.
Del 1283, esattamente del 3 luglio, è riportata una curiosa transazione che vedeva da una parte due esponenti dei signori di Rivalta, uno dei "di Trana", ed uno dei Falconeri, dall'altra l'Abbazia di San Michele della Chiusa.
Curiosa perché dimostra come, in quel tempo lontano, il rapporto di vassallaggio non fosse basato esclusivamente sull'obbligo di corrispondere denaro e derrate alimentari al titolare del feudo, ma includesse, a volte, un cerimoniale che non lasciava dubbi su chi fosse il vero "padrone del vapore".
Oggetto della transazione era l'omaggio di fedeltà dovuto dai primi contraenti al secondo per il piccolo feudo di Colpastore, che a quel tempo dipendeva dall'Abbazia.
Per l'occasione fu chiamato, in veste di arbitro, l'abate di Susa, il quale stabilì che ad ogni nomina di un nuovo abate dell'Abbazia, i signori di Trana, o anche uno solo di essi, dovesse per prima cosa andare ad aspettarlo a Sant'Ambrogio, poi, tenendogli il cavallo per le briglia, dovesse accompagnarlo ovunque gli facesse comodo.
E quando l'abate chiedeva di smontare da cavallo, bisognava tenergli ben fermo il piede nella staffa fin che non avesse toccato terra con l'altra estremità.
Ma non era finito lì.
I signori di Trana dovevano affiancarsi a lui in qualsiasi guerra in cui l'Abbazia venisse coinvolta, tranne che muovere contro il conte di Savoia.
Come ho detto, a volte il rapporto di vassallaggio era persino un po' imbarazzante per chi stava sul gradino più basso.
Prendiamo questo caso specifico, in cui uno dei signori di Trana, vestito presumibilmente "in pompa magna", doveva afferrare con entrambe le mani il piede dell'abate e tenerlo ben fermo nella staffa mentre questi smontava da cavallo.
E adesso immaginiamo che lo stesso abate si fosse presentato all'appuntamento scalzo, secondo l'usanza seguita dalla maggioranza dei monaci, e che non si fosse lavato i piedi da una settimana ...
Ma torniamo alle vicende storiche.
Nel 1233, alla morte di Tommaso I, ecco le solite beghe in famiglia per dividersi l'eredità, poi l'accordo di Chillon, con il quale Tommaso II si prese le terre ab Avilliana inferius, cioè da Avigliana in giù, quindi anche il feudo di Rivalta che comprendeva Trana, mentre il resto andò al fratello Amedeo IV.
La conferma della sudditanza da Rivalta risulta anche da una lettera di Amedeo VII datata 13 luglio 1385 indirizzata ai signori di Rivalta, con l'aggiunta "consignori di Trana".
Nel biennio 1367-68 Trana, come altre località della zona, dovette subire le conseguenze di una vera e propria invasione da parte delle soldatesche di ventura venute a sostegno di Filippo II in lotta col padre, Giacomo I, e col cugino, Amedeo VI, il cosiddetto "Conte Verde".
Era gentaglia della peggior razza, capace di ogno tipo di sopruso.
Nel 1581 ebbe inizio la signoria dei Gromis, sempre alle dipendenze dei signori di Rivalta, che ormai si facevano chiamare Orsini.
Ma dei Gromis si parlerà più dettagliatamente nel capitolo che segue.
Siamo dunque alla fine del '500, con Carlo Emanuele I e la sua politica di espansione.
L'attacco contro il Marchesato di Saluzzo riaprì la guerra contro la Francia, che si protrasse per una decina d'anni, col risultato di far arrivare la peste, inizialmente scoppiata in Provenza e Delfinato, fin dalle nostre parti, colpendo dapprima Susa e Rivoli, poi Avigliana e Torino.
Trana, invece, come pure Sangano, Reano e Rivalta, sembra non sia stata contagiata.
Ecco come Alfredo Gerardi, autore del poemetto « Flussi e riflussi tra il Sangone e l'011asio », descrive le precauzioni adottate per fronteggiare il diffondersi del contagio: La peste affiora e incombe nell'estate, all'oste e al tavernier si pone il veto di dare albergo a genti appena entrate, se lo scrivano ignori nome e ceto. E la bolletta reca inusitate sanzioni, norme ed ordine completo.
Seguirono le "guerre del Monferrato" con la conseguente duplice invasione della Val di Susa da parte dell'esercito di Luigi XIII, re di Francia.
Durante la seconda calata delle truppe francesi, anche Trana fu occupata.
Accadde il 12 maggio del 1630, ma non ci fu battaglia.
All'arrivo dei primi soldati francesi, la guarnigione che presidiava il castello, un centinaio di uomini appena, se la diede a gambe, lasciando via libera al generale Montmorency che sicuramente andò a sistemarsi nell'antico maniero, trascorrendo la notte nel comodo letto "a baldacchino" nel quale riposava abitualmente il signorotto del luogo.
Compiaciuto dell'avvenuta conquista dell'importante punto strategico "senza colpo ferire", Montmorency chiese inoltre agli abitanti di Trana ospitalità per i suoi soldati, e si premurò affinché fosse loro servito il buon vinello locale che gli avevano appena fatto assaggiare.
Quanto al signorotto che dimorava nel castello, fuggito sicuramente ben prima dell'arrivo dei soldati francesi, i testi consultati non ne riportano il nome.
Ma dovrebbe trattarsi di uno, o al massimo due, dei sei figli di Guglielmo Gromis che ebbero l'investitura nel giugno del 1597, si presume alla morte del padre.
Probabilmente era Guido, il cui nome appare in un successivo atto del 1624.
Non credo, infatti, che convivessero tutti e sei, ciascuno con moglie e figli, nelle medesime stanze, altrimenti il castello sarebbe sicuramente crollato allora e non, come vedremo più avanti, nel 1693, sotto i colpi di cannone di un altro generale francese, il "terribile" Catinat.
Nel 1630, assieme alle truppe d'occupazione, in bassa Val Susa ed in Val Sangone arrivò nuovamente la peste, - la stessa di cui parla il Manzoni ne « I promessi sposi ».
Cominciò da Avigliana, dove c'era stata una grande battaglia, ed in breve si sparse un po' dappertutto, colpendo ovviamente anche Trana.
Nel cimitero locale non c'era più posto per seppellire i cadaveri, e fu necessario ricorrere ad un terreno a valle dell'abitato.
A1 termine della pestilenza troviamo due edifici che testimoniano la gratitudine della popolazione scampata al pericolo: a Giaveno la Chiesa di San Rocco in pieno centro storico e a Trana la chiesetta della Madonna delle Grazie ubicata vicino al ponte del Sangone.
Poi, passata l'epidemia, ecco abbattersi sulle stesse terre una nuova sventura, stavolta di tutt'altra natura, per cui è doveroso ricorrere ancora ad un'antipatica deviazione nelle complicate vicende politiche del Piemonte.
Nel 1637, alla morte prematura di Vittorio Amedeo I, la reggenza passò alla consorte, Maria Cristina, figlia di Enrico IV, che era stato re di Francia, e sorella del suo successore, Luigi XIII.
La vedova aveva due figli, Francesco e Carlo Emanuele, ma erano ancora troppo piccoli per poter governare, cosicché il ducato passò a lei, appunto "in reggenza", in attesa che i due figlioletti raggiungessero la maggiore età.
Fin qui tutto semplice.
Allora, procediamo.
Francesco morì quasi subito, e poiché il fratellino Carlo Emanuele, essendo gracile e malaticcio, sembrava destinato a seguirne quanto prima la sorte, una parte della noblità si schierò a favore dei due fratelli del defunto Vittorio Amedeo, opponendosi all'autorità di Maria Cristina, che da questo momento assumerà il nome di "Madama Reale".
Quindi, riepilogando, si ebbero due partiti: quello dei "madamisti", fedeli alla duchessa e al piccolo Carlo Emanuele, legittimo erede, e quello dei "principisti", favorevoli ai suoi due cugini, il cardinale Maurizio di Savoia con il castello estivo a Giaveno nel cosiddetto "Parco Abaziale", e Tommaso di Carignano.
"Madama" aveva dalla sua le truppe francesi già presenti nel territorio, nonché la possibilità di ricevere altri aiuti dal potente fratello, il sovrano di Francia.
Maurizio e Tommaso, invece, potevano contare sul valido appoggio della maggior parte della popolazione, stanca della presenza straniera.
Lo scoppio della guerra civile fu perciò inevitabile.
"Madama" fu costretta a lasciare Torino, ma vi fece ritorno ben presto con l'aiuto delle truppe francesi comandate dal cardinale Richelieu.
Al che i tranesi esultarono, essendo Trana, come Giaveno, Coazze e Sangano, schierata dalla sua parte.
La guerra civile ebbe termine, ma Madama Reale continuò a combattere una sua guerra privata contro le mire del fratello, Luigi XIII, e del cardinale Richelieu, i quali volevano approfittare della situazione per "allungare le mani" al di qua delle Alpi e far sì che l'intero Piemonte passasse sotto il dominio della Francia.
Ed anche in questa seconda guerra, la brava "Madama" risultò vittoriosa.
Poi, alla sua morte, nel 1663, il figlio Carlo Emanuele II subentrò nel governo del ducato.
Seguirono anni di relativa calma.
Niente guerre, ma vita egualmente grama per le popolazioni delle campagne, dissanguate dalle tasse e dalla presenza dei numerosi presidi militari i cui componenti, per sfamarsi, depredavano i raccolti.
Carlo Emanuele non visse a lungo.
Morì a soli quarant'anni a causa di una febbre violenta.
Tuttavia, a dispetto della sua gracilità e della sua salute malferma, fu un donnaiolo di prim'ordine ed ebbe un sacco di figli naturali.
Il duca si era fatto vedere spesso a Trana.
Mentre era in vacanza nel castello di Giaveno, ci veniva con la sua seconda moglie, Giovanna Maria di Nemours, e con tutta la sua corte per spensierate battute di caccia.
I bellissimi boschi della zona, e tali lo sono tuttora, dovevano infatti rappresentare il massimo per un grande appassionato di caccia come lui.
La sua morte prematura segnò l'inizio di una nuova reggenza, quella della moglie Giovanna Maria, avendo il loro unico figlio, Vittorio Amedeo II, solo nove anni.
Una nuova "Madama" entrava dunque nella storia del Piemonte.
Vissuto per un po' di tempo sotto l'ala protettrice della madre, la quale era quasi una fotocopia della precedente Madama Reale, Vittorio Amedeo II si gettò nella mischia a vent'anni e ben presto si trovò "nella cacca" fino al collo.
La colpa, ancora una volta, era della Francia e delle mire espansionistiche del suo nuovo sovrano, Luigi XIV, il famoso "Re Sole", ansioso di mettere le mani soprattutto sulla Spagna, dove la morte di Filippo IV, avvenuta vent'anni prima, aveva acceso la lotta per la successione al trono di quel Paese.
Vittorio, all'inizio, non aveva alcuna intenzione di entrare a far parte della "Lega di Augusta" e di schierarsi contro i Francesi, per cui temporeggiò.
Purtroppo si trovò, suo malgrado, coinvolto nella "questione valdese".
Luigi XIV ce l'aveva a morte con gli ugonotti, buona parte dei quali, per sfuggire alle persecuzioni, si erano rifugiati al di qua delle Alpi, chiedendo ed ottenendo aiuto dai valdesi del Piemonte.
Il "Re Sole", allo¬ra, intimò a Vittorio Amedeo di unirsi a lui nella repressione, usando parole che non lasciavano nessun'altra scappatoia: « O provvedete Voi stesso a sloggiare Ugonotti e Valdesi dalle Vostre montagne, oppure spedisco io un generale a farne piazza pulita in quattro e quattr'otto! »
E il generale in questione era già bell'e che pronto, e così pure l'esercito.
Si trattava di Nicola Catinat de La Fauconnière.
Vittorio Amedeo, per evitare una nuova invasione, si vide costretto a prendere i provvedimenti del caso, dapprima in modo piuttosto blando, poi, però, sentendosi continuamente controllato dal monarca francese, anche lui passò alle maniere pesanti.
Nel frattempo i componenti della "Lega" premevano affinché Vittorio Amedeo si mettesse dalla loro parte, offrendo ogni appoggio militare possibile ed allettanti "premi di partecipazione".
Ma il duca era sempre indeciso, al contrario di Luigi XIV che, ad un certo punto, prese l'iniziativa.
Con la scusa di voler mettere fine alla "questione valdese", il "Re Sole" ordinò ai suoi generali di valicare le Alpi e di muovere con diciottomila uomini contro i valdesi del Piemonte.
Al comando dell'esercito invasore era stato messo il Catinat, che ben presto verrà soprannominato "il terribile", data la sua ferocia « ... durante e dopo ogni battaglia ».
Era il maggio del 1690.
La guerra fu lunga.
La barca del duca, all'inizio, faceva acqua da tutte le parti, soprattutto perché i rinforzi promessi dalla "Lega" tardavano ad arrivare.
Poi, però, ci fu un momento in cui le cose sembravano andargli abbastanza bene.
Le truppe piemontesi e quelle tedesche riuscirono ad invadere il Delfinato, e le parti si invertirono.
In quel frangente erano "i nostri" ad incendiare, a saccheggiare, a stuprare le donne e ad uccidere senza alcuna pietà vecchi e bambini.
Le stesse cose faceva, intanto, il Catinat sulle nostre terre.
Nell'ottobre del 1693 avvenne lo scontro definitivo, fra Orbassano e Cumiana.
Altra sconfitta per Vittorio Amedeo, il quale, appena scampato ad un attacco di vaiolo, stanco e sfiduciato, andò a fortificarsi a Moncalieri da dove diede subito inizio alle lunghe trattative per ottenere una pace onorevole con Luigi XIV, cosa che fece senza dire niente ai proprii alleati.
La pace verrà firmata solo tre anni più tardi.
Vittorio Amedeo uscirà dalla "Lega" e si dichiarerà neutrale.
In cambio otterrà la dipartita dell'esercito francese dal Piemonte.
Ma passiamo alle vicende della bassa Val Susa e della Val Sangone, tornando un attimo indietro, all'estate del 1690.
Dopo il saccheggio di Orbassano e di Rivalta, e l'incendio di Cavour, il 18 agosto c'era stata la battaglia di Staffarda, vinta dai francesi, alla quale era seguito l'attacco alla Val di Susa da due diverse direttrici, dal Colle del Sestriere e dal Colle delle Finestre.
Susa era stata occupata 1'11 novembre.
Poi il Catinat era tornato in Francia a svernare e a riordinare le idee.
L'anno dopo, rieccolo in primavera, prima a San Giorio, con l'inevitabile distruzione del castello, quindi ad Avigliana, con parziale abbattimento del castello e la resa del presidio locale ( 29 maggio ).
Fu durante il breve assedio di Avigliana che le truppe francesi, accampate nella zona, avevano fatto visita, non certo di cortesia, a Giaveno, con la parziale distruzione della collegiata di San Lorenzo, a Trana e a Sangano, compiendo saccheggi e atrocità a non finire.
Alcune fonti affermano che il castello di Trana fu anche preso a cannonate, subendo una prima parziale demolizione.
Per ultimo, il 3 giugno, era avvenuto l'attacco in forze contro Rivoli e Villardora con distruzione di entrambi i castelli.
Poi il Catinat si concesse una nuova sosta invernale nei pressi di Fenestrelle, che da quel giorno ha preso appunto il nome di "Prà Catinat".
Il 1693 era cominciato con un frenetico via-vai per Trana di truppe dei due opposti schieramenti, ma tutti andavano di gran fretta, soprattutto i francesi, sicché il piccolo borgo era stato risparmiato da ulteriori saccheggi da parte di questi ultimi.
Ciò fa supporre che il castello e le sue fortificazioni non costituissero una minaccia, dal momento che l'intero complesso doveva essere stato abbandonato.
Ma il sollievo dei tranesi nel vedersi, nonostante tutto, fuori della mischia, fu di breve durata.
La notte fra il 5 e il 6 di ottobre, subito dopo la grande battaglia di Cumiana, che prese il nome "della Marsaglia", una parte delle vittoriose truppe del Catinat si era diretta verso Trana per raggiungere Avigliana, saccheggiando e incendiando tutto ciò che incontrava al suo passaggio.
Non è escluso che alla testa di quelle truppe ci fosse lo stesso Catinat, poiché in tale occasione il castello di Trana era stato nuovamente preso a cannonate e reso definitivamente inservibile.
Questo generale francese, si sa, doveva avercela in modo particolare con i castelli, perché non ne lasciò in piedi nemmeno uno nel corso delle sue "campagne".
Si presume che dovesse provare un godimento sfrenato mentre osservava, attraverso le lenti del suo cannocchiale, torri e mura merlate che andavano in frantumi sotto i colpi delle palle di cannone sparate dalle sue artiglierie, lo stesso godimento che i suoi soldati provavano, invece, nell'incendiare le case ed i fienili dei nostri villaggi.
Ma quelli non facevano che eseguire degli ordini ben precisi, ordini che erano partiti nientemeno che dal "Re Sole" in persona.
Risulta, infatti, che il sovrano francese avesse dato al suo generale chiare istruzioni sul comportamento da adottare nei riguardi della popolazione.
« Quand Vous serait dans le Piemònt, braléz, brísiléz, brCiléz! »
E il fedelissimo Catinat, per non avere poi rogne col suo superiore, decise che era molto meglio assecondarlo, guadagnandosi in tal modo, al suo rientro a Parigi, il titolo di "Maresciallo di Francia".
A Trana, dopo l'abbattimento del castello, non ci fu più alcuna guerra, ma solo un nuovo e triste periodo di occupazione da parte delle truppe francesi, allorché Vittorio Amedeo II si trovò ancora una volta immischiato nella questione legata alla successione nel regno di Spagna.
Dapprima alleato con Luigi XIV, gli voltò le spalle non appena si accorse che si era schierato dalla parte sbagliata, ma finì col trovarsi subito nei guai, perché l'esercito francese gli piombò addosso da tutte le parti, costringendolo ad asseragliarsi all'interno delle mura di Torino.
Le vicende del famoso assedio del 1706, con l'insperata vittoria finale dei piemontesi, sono note.
La Basilica di Superga fu eretta in questa circostanza per cui la parte strettamente storica di Trana termina qui.
Nemmeno le vicende legate alla guerra di successione austriaca, che vide per l'ennesima volta il Piemonte schierato contro la Francia, nonché la famosa battaglia dell'Assietta del luglio del 1747, non la riguarderanno, al di fuori di quello che poteva essere il normale reclutamento di uomini e il peso delle nuove tasse per far fronte alle ingenti spese militari.
Del grazioso castello, la cui visuale doveva lasciare veramente a bocca aperta chiunque arrivasse a Trana provenendo da Sangano, non era rimasta che la torre, con qua e là qualche buco.
ovviamente, dovuto alle cannonate del Catinat, ma ancora in piedi.
Tutto, quindi, era tornato come quando i Romani, o i Saraceni, la costruirono, come se il tempo, in quel preciso punto, si fosse fermato e nulla di quanto abbiamo letto sia mai successo attorno ad essa.
« C'era una volta una torre, che volle diventare un bellissimo castello, ma che poi, stanco di cambiare continuamente padrone e di trovarsi sempre in mezzo alle guerre, volle tornare ad essere soltanto una torre ... »
Sembra l'inizio di una favola per bambini, di quelle che, una volta, riuscivano davvero ad incantare i più piccini.
Invece, stando a quanto abbiamo appena appreso, la vera storia di questa torre è stata tutt'altra cosa.